Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

venerdì 26 agosto 2016

BEELZEFUZZ - The Righteous Bloom
(CD Restricted Release)


Attualmente il nome Beelzefuzz è coinvolto in una controversia, tanto è vero che il sito Metal Archives.com lo definisce come “disputed”. In pratica uno dei membri fondatori della band ritiene di essere stato ingiustamente estromesso dal gruppo, pur avendo scritto tutte le musiche dell’omonimo album di debutto del 2014 e rivendicando la proprietà del moniker. In effetti la band si sciolse nello stesso anno e gli altri membri ne formarono un’altra con il nome The Righteous Bloom; fatto sta che ora si presentano di nuovo con la denominazione originaria (e lo fanno in tutte le sedi: live, social network, bandcamp, etc. Se ne deduce che quindi ne abbiano i titoli legali per farlo) e The Righteous Bloom è diventato il titolo del loro secondo album.
Provengono dal Maryland e la line up include  il chitarrista Greg Denier, il batterista Darin McClosky (entrambi anche nei Pale Divine), il bassista Bert Hall (che milita pure nei Revelation) ed il cantante e chitarrista Dana Ortt, vero spirito guida del gruppo. Ora, se prendiamo le coordinate geografiche e stilistiche, viene facile intuire che stiamo parlando di hard/stoner/doom, e se ci mettiamo anche i numi tutelari Pentagram, che su tutti questi gruppi aleggiano immortali, un’idea di come suonano i Beelzefuzz ve la siete già fatta.
Bene, è sbagliata.
Se esiste un gruppo in grado di sovvertire le regole del genere, pur rimanendoci assolutamente fedele, è questo. La voce di Dana Ortt è acuta, quasi un Ozzy più giovane e più metallico, un po’ sulla falsariga di Jason Shi degli ASG; ma capace di svariare in tutti i registri con abilità ed espressività magnetiche, riuscendo a trasmettere perfettamente le emozioni e le atmosfere dei brani.
E che brani, signori miei! Dall’iniziale, impetuosa Nazriff, passando per la sinuosa (potrebbe essere una hit: ascoltate il chorus) Hardluck Melody o la lenta Nebulous, il disco non presenta filler di sorta. Ogni canzone è perfettamente compiuta e si ascolta con grande piacere.
Come dire, gli ingredienti sono gli stessi di mille altri acts del genere, ma è come se venissero miscelati in modo completamente diverso. C’è il blues, certo, l’hard rock anche; l’atmosfera generale è indubbiamente DOOM. Echi di Trouble, Penance, Cathedral, Uncle Acid and the Deadbeats e altri che non nomino qui si sentono eccome, ma incredibilmente l’insieme risulta davvero fresco e personale, a tratti unico.
Anche gli intrecci delle due chitarre, a volte in acustico, e gli sporadici ma efficaci interventi di un organo dal suono caldo e vintage contribuiscono a costruire un mood scuro ma non deprimente (e qui sembra di tornare ai tempi in cui il doom non era una gara a chi suonava più lento ed oscuro, ma come avveniva per certi eroi della primordiale N.W.O.B.H.M, era il risultato di più fattori, non ultima la varietà del songwriting).
Certamente vi sono delle ingenuità, ma di vere e proprie cadute di tono non si trova traccia in questo consigliatissimo disco.

Un nome (sia pur conteso) da tenere assolutamente d’occhio in futuro!

Edvard von Doom

RED SCARE - Then There Were None
(LP Upstart Records)


A distanza di moltissimi anni mi è rimasto impresso in maniera indelebile nella mente un brano rozzo e crudo ma che, a mio modo di vedere, era ed è la perfetta trasposizione sonora di quello che stava accadendo in America, musicalmente, nei primi anni ottanta: il brano è Red Rum ed è firmato da una misconosiuta band dal nome RED SCARE!
Questo brano era contenuto (con anche Don’t Look In The Basement) in una limitatissima compilation in cassetta, americana, che mi era stata passata dal buon Stiv (“Rottame” Valli ndr.), dal titolo Meathouse che, nel corso della mia vita, è andata persa con molte altre preziose innominabili rarità.
Era una cassetta piena zeppa di bands ai primordi e per me allora completamente ignote: ricordo, tra gli altri, i mitici Minutemen, JFA, Battalion of Saints o gli skaters Tar Babys.
Nel corso degli anni non mi sono mai preoccupato di approfondire la ricerca e sono sempre rimasto a canticchiare la canzone sopra citata ricordandola perfettamente avendo letteralmente consumato la famosa cassetta.
Mi sono imbattuto per puro caso nell’intero ed unico L.P., del 1984, dei RED SCARE (ristampato in CD nel 1995 dalla Grand Theft Audio con il titolo di As Promised con inediti e brani dal vivo in aggiunta).
Il suono è diretto e decadente, pulito ma scarno e grezzo come solo in quella magica epoca poteva succedere, un po’ per mancanza di mezzi ed un po’ perché quello era il suono che si cercava; un suono che rappresentasse in modo più fedele possibile l’impatto e l’urgenza che quel tipo di bands avevano on stage.
Classica teenage angst, l’essenza della ribellione e della rabbia giovanile convogliata in un’espressione sonora che in quel periodo veniva etichettata come PUNK ma che è sempre esistita ed è sempre andata di pari passo con gli impulsi adolescenziali ed i naturali conflitti generazionali.
Era il tipico suono dell’hardcore americano ai primordi con ritmi medi, chitarre pastose ed in questo caso la splendida voce di Bobbi Brat (dal look gotico) molto simile alla magica Siouxsie dell’indimenticabile Scream!
Mi vengono in mente compilations mitiche come Hell Comes To Your House, Tooth & Nail (veri e propri manifesti di un’epoca irripetibile!) e bands come Legal Weapon, 45 Grave, Sin 34, primi Social Distortion e successivamente bands di puro hardcore come Proletariat, N.O.TA., Shattered Faith, Code of Honor, primi Gang Green…
Gli undici  brani dell’L.P. scorrono veloci e sicuri partendo dall’iniziale Last Request dove sono presenti in due minuti tutte le frustrazioni e le insicurezze di un’età di transizione in un sound di purissimo PUNK americano con, nella parte centrale divagazioni new wave e la voce sensuale e trascinante sopra a tutto.
Condensato in mezz’ora scarsa questo disco è l’esempio perfetto di ciò che accadeva in quel periodo in cui PUNK, new wave, post punk, dark si mescolavano spontaneamente creando una miscela inedita.

Per dare un senso ad un’epoca importante, per chi c’era e chi non ha potuto esserci.

Reverberend

giovedì 25 agosto 2016

PETER AND THE TEST TUBE BABIES
The Mating Sound Of South American Frogs
(LP Trapper Records)


Ricordo nitidamente la mia prima, di una lunga serie, visita nella capitale inglese nel lontano aprile del 1985 in compagnia del mai dimenticato Bernie, mio amico per eccellenza!
Durante quella prima mitica gita ci recammo in un, allora famoso, negozio specializzato in Camden High Road che si chiamava Rhythm e cercando tra i vari 33 giri (i CD praticamente non esistevano ancora!!) rimanemmo colpiti da un disco dei bizzarri PETER & THE TEST TUBE BABIES dal misterioso titolo The Mating Sounds Of South American Frogs uscito originariamente nel 1983!
Ricordo che era presente una sola copia che si è assicurò Bernie ed io ho sperato di trovarne un’altra, come poi è effettivamente successo in un altro negozio dei tanti allora presenti a Londra.
La cover ritrae due rane coloratissime e non lascia presagire nulla del contenuto realmente inclassificabile di tutti e undici i brani di questo misconosciuto e perduto disco.
Si parte con il reale suono gracchiante delle rane al quale si sovrappone il cristallino ed originalissimo suono delle chitarre e la voce melodica e potente che ci guida in un territorio pieno di riverberi, riffs micidiali e melodie solari e sospese tra Inghilterra punk/Oi della periferia ed un suono californiano denso di elettricità ed intricati ma molto armonici giri di chitarre e ritmi medi da mandare a memoria con estrema facilità sino alla nausea.
Si parte da One Night Stand, con i suoi cori antemici, tipici di certo Oi, che si sovrappongono egregiamente alle chitarre suonate con maestria, dal suono pulito, che alternano elettricità a tessuti acustici che non hanno nessun termine di paragone ma conservano una melodia e  memorizzazione invidiabili.
Si passa poi alla successiva Let’s Burn, dall’inizio acustico sino all’entrata prepotente ma nitida e cristallina delle chitarre con la voce, dalla pronuncia molto english working class, evocativa e sempre accompagnata da indovinati cori di supporto.
The Jinx e Blown Out Again veri picchi emozionali di tutto il disco, sono dei piccoli CAPOLAVORI assoluti di perfezione melodica, episodi irripetibili in quell’epoca di transizione tra punk evoluto, post-punk, new wave e chissà cos’altro.
L’hardcore fa’ timidamente capolino tra le melodie killer di Easter Bank Holiday ’83 ma il clima è sempre disteso e solare nella terra di nessuno.
Anche l’ironica, con tanto di fiati, Pissed Punks (Go For It) nella sua estraneità tra p-funk ed england Oi (?!)si trova perfettamente a suo agio in questi solchi caratterizzati anche da rimarchevoli coretti femminili.
Certo che andare a ripescare questo perduto e dimenticato disco sembra proprio un gesto preparato a tavolino ma vi assicuro che, oltre al mio fortissimo legame affettivo, è proprio un qualcosa di unico pensato da, va da se’, persone veramente fuori da ogni schema, non fosse altro per il nome che si sono scelti: PETER AND THE TEST TUBE BABIES…Chissa’ che fine hanno fatto… [hanno continuato a fare dischi! l'ultimo album si intitola Piss Ups (!) ed è del 2012. n.d. Doom] Comunque avranno SEMPRE un posto speciale nella mia copiosa collezione di dischi.

Spero anche nella vostra…

Reverberend

domenica 21 agosto 2016

WEIRD LIGHT - Doomicvs Vobiscvm
(CD Shadow Kingdom)


Devo ammetterlo: ho da sempre un debole per i minori, i collaterali, quelli che non entrano mai nei libri dei 100 migliori albums di…, oppure nelle liste degli imprescindibili di ogni genere. Gli sfortunati, quelli arrivati troppo presto o troppo tardi; quelli che non hanno mai pubblicato un singolo brano in vita, ma i loro lavori postumi diventano opere di culto dopo la dipartita (artistica e non).
Detto ciò, si può affermare che i Weird Light rientrano perfettamente nella categoria. Già scegliere di suonare doom tradizionale di questi tempi non è certo una scelta vincente, se vuoi diventare famoso, in più se provieni dalla provincia dell’impero (Rodez, Francia profonda) la faccenda è ancora più complicata.
Formati da M. Blacklord, voce e chitarra, e da F. Faust a basso e backing vocals, i Weird Light sono rimasti attivi dal 2004 al 2008. Nel 2005 hanno realizzato un demo su cassetta che portava lo stesso titolo di questo cd, ma che non è mai stato distribuito, contenente tre brani. Un altro brano, Stare In The Dark, avrebbe dovuto comparire su un 7” split con i Rising Dust; anche questo mai realizzato.
Ora, se non è FATO AVVERSO questo, ditemi voi cos’è. Ma il Doom è un padre misericordioso per i suoi figli e, come un fiume carsico, ciclicamente riporta in superficie anche le entità più piccole e oscure per tributargli la giusta e doverosa attenzione.
Benissimo ha fatto, dunque, la Shadow Kingdom a pubblicare questo cd che raccoglie quanto registrato dai Weird Light (a proposito: è un nome meraviglioso!) prima del loro inopinato scioglimento. Lo sticker in copertina li descrive come un incrocio tra Candlemass e Reverend Bizarre, il che non è fuorviante, anche se la bilancia pende a mio parere più per i secondi, dei quali ricordano la lenta pesantezza e il suono delle chitarre.
Uno dei punti di forza della band è la voce di Blacklord: pulita, epica e sofferente come è giusto che sia; ma colpisce anche il songwriting, piuttosto maturo trattandosi in fondo di brani provenienti da demo. Doom classicissimo, dicevo in apertura, i brani sono lineari e tutto sommato “semplici”, ma proprio questo evidenzia la bravura del duo, che avvince senza utilizzare trucchi di sorta. Anzi, la, per forza di cose, bassa qualità di incisione finisce paradossalmente per esaltare il fascino polveroso e mesmerico delle canzoni (l’intermezzo sospeso all’interno di Obsidian Temple sembra provenire da un’altra dimensione).
Mano a mano che ci si addentra nell’ascolto del disco cresce il rammarico per quello che i Weird Light avrebbero potuto darci; raramente ho sentito un demo così ricco di personalità, e mi ripeto, pur rimanendo negli angusti confini di un genere come questo. Insomma, riescono con pochi mezzi a creare un’aura oscura e misterica, ipnotica, che cresce in spirali di suono avvolgenti e fatali come un boa constrictor. Ogni tanto appaiono bagliori sinistri (la weird light?) nel buio che contribuiscono a rendere più inquietante l’atmosfera già plumbea. La coda simil-gregoriana di GogMagog (Under The Trumpets Of Doom) mi ha riportato alla mente le scene iniziali del film Nosferatu, con la fantasmatica musica dei Popol Vuh in sottofondo…

Per quanto mi riguarda, una delle sorprese (perdute) dell’anno.

Edvard von Doom

POTERE CRUDO E TENDENZE SUICIDE


Per chi, come me, ha vissuto la seconda ondata punk degli anni ottanta (diciamo dal 1982 al 1986), oltre all’incredibile oceano hardcore ci sono stati anche due dischi due che hanno cambiato tutto: nulla e più stato come prima!
Ma andiamo con ordine: il punk degli anni ottanta, il suono del punk, si è indurito, velocizzato ed anche fratturato in tante piccole schegge impazzite!
Si è soliti, correttamente, definire questo suono come hardcore, caratterizzato da un velocità estrema con parecchi cambi di tempo, nessun assolo come da tradizione punk e tanta furia iconoclasta.
Le due scuole principali, come spesso si è verificato nella storia della musica, dagli anni cinquanta in poi, si possono dividere in quella americana che a sua volta si divide in costa ovest (California come modello principale) e costa est (Washington D.C. come modello dominante), e quella inglese più politicizzata e legata alle condizioni sociali dei più disagiati-
Ognuna delle due scuole, come i momenti migliori e più fecondi di qualsiasi campo artistico ed espressivo rifletteva come uno specchio la vita reale e le condizioni della gioventù di riferimento.
In questo approfondimento ci concentriamo sulla scena americana (Californiana in particolare) che poi ha influenzato in maniera indelebile anche i modelli di riferimento italiani.
Oggi, tutti i dischi italiani di hardcore sono considerati fondamentali da tutti i collezionisti di materiale storico di quella magica epoca e la nostra penisola viene messa subito dopo l’America e l’Inghilterra da chiunque capisca qualcosa di ciò che è successo.
Io, come già anticipato, ho avuto la fortuna di arrivare al momento giusto per vivere sulla mia pelle la seconda ondata (per la cronaca sono nato nel 1966), quella hardcore, dalla quale mi sono fatto coinvolgere e sconvolgere completamente frequentando per anni assiduamente il mitico Virus a Milano (di via Correggio prima e poi nell’ultima sede della quale non mi ricordo l’esatto indirizzo).
Questa esperienza, fatta negli anni cruciali della mia esistenza, è stata fondamentale perché mi ha permesso di mettermi a nudo, di sentirmi compreso e gratificato in un periodo in cui spesso è la confusione e l’insicurezza a prendere il sopravvento.
Grazie al punk sono riuscito a trovare il mio posto nel mondo, a capire chi ero, che cosa volevo e dove mi sarebbe piaciuto arrivare.
Paradossalmente, grazie ad un movimento comunque estremo e di rottura ho fatto dell’equilibrio la mia ragione d’essere; una ragione che ancora oggi mi accompagna nella splendida quotidianità che mi sono costruito, prima da solo e poi con la mia donna ideale, Paola, che condivide magicamente con me tutto questo.
Tornando alla musica ricordo che il periodo iniziale, dall’anno 1982, è stato incredibile con tutto un fiorire di bands che si sono ritagliate uno spazio importante grazie anche alla capillare scena completamente indipendente ed autogestita che si era riusciti a creare, tra mille difficoltà, in tutta Italia.
A quel tempo tutti i dischi italiani si prendevano direttamente dalle bands che arrivavano con gli scatoloni pieni zeppi di vinili appena sfornati (come fossero prelibatezze culinarie!!) e quelli stranieri si recuperavano per posta, contattando direttamente le bands, o nei pochissimi negozi d’importazione del periodo.
Tanti li ho recuperati anche nel punto di distribuzione alternativo organizzato dal collettivo del Virus in viale Orti a Milano (Virus Distribuzioni).
I concerti erano dei veri happening dove succedeva di tutto all’insegna del divertimento e dello sfogo più genuino: dallo stage diving (tuffi dal palco, spettacolari anche se in alcuni casi rovinosi) al mosh alla slam dance (vorticosa danza spastica in cerchio creando un gorgo irrefrenabile)!!
Tutto questo davvero irreale periodo d’oro è durato sino a quando, inevitabilmente, il suono puro e genuino dell’hardcore a iniziato a contaminarsi con altro.
Questo secondo periodo è stato comunque favoloso dal punto di vista musicale perché ha creato interazioni che hanno portato i germi per una esponenziale crescita verso nuovi impensabili orizzonti.
E’ così che nel 1983 è arrivato, dal nulla, lo shock del primo album omonimo dei SUICIDAL TENDENCIES: sin dalla cover che ritraeva Mike Muir (il cantante) e soci appesi a testa in giù su una struttura d’acciaio e con un collage di foto di gente della scena con camice disegnate (il fulgore del più puro D.I.Y.) in tema SUICIDAL TENDENCIES.
Uscito su Frontier Records il disco è il fantascientifico risultato della perfetta contaminazione dell’hardcore migliore che si possa ascoltare con il miglior heavy-metal possibile: è difficile da immaginare, ma pensate alla velocità, alla furia al nichilismo, alla violenza, alla rabbia tipiche dell’hardcore sciolte con scientifica precisione con la tecnica (ora sì fondamentale), la precisione e la professionalità del migliore metal trash.
I brani, tutti memorabili, mischiano in maniera mirabile il suono desertico ed arido tipico di certe assolate zone della California (loro vengono direttamente da Venice Beach) con la pellicola culto Un mercoledì da leoni (film sportivo del 1978 vero e proprio manifesto dei surfisti più incalliti).
Ho continuato a riascoltarlo nel corso di tutti questi anni ed è rimasto, almeno ai miei occhi, ugualmente scioccante e DEFINTIVO.
Nel 1985, un giorno dei tanti durante il quale mi sono spinto a Como a casa di Stiv Rottame Valli per acquistare gli ultimi arrivi direttamente dall’America sono stato colpito da un altro fulmine ugualmente devastante: l’uscita lungamente attesa e sognata del secondo disco degli italiani RAW POWER intitolato Screams From The Gutter (Urla dalla fogna) e consegnato alla leggenda dall’americana Toxic Shock Records (registrato in due notti senza alcun overdubs!?!).
Anche in questo caso la cover già dice tutto con un pazzesco disegno elettrizzante e sconvolgente allo stesso tempo di Vince Rancid che ritrae un essere mostruoso deformato e scarnificato all’interno di una fogna con colori incredibili!!!
Direttamente da Poviglio (in provincia di Reggio Emilia) l’America tutta è stata rasa al suolo, letteralmente, da quattro giovani invasati che sono riusciti, con 17 fulminanti brani, a scrivere il CAPOLAVORO ASSOLUTO di tutta una serie di generi!!!
Nulla è possibile né immaginare né aggiungere dopo questo disco.
Loro ci hanno comunque provato incidendo After Your Brain, nel 1986, ma, sebbene sia comunque un gran bel disco non è neanche lontanamente accostabile al precedente.
Certe cose succedono e basta…

UNICHE ED IRRIPETIBILI!!!

Reverberend


Postilla del Doom:
sottoscrivo ogni singola parola del buon Reverberend. Ho vissuto pure io quel periodo meraviglioso nel quale davvero si pensava di poter cambiare le cose (non dico il Mondo; quello cambia da solo e di solito in peggio). Non così intensamente come il Rev. purtroppo, in quegli anni uno l'ho dovuto regalare allo Stato (naja, non galera, non pensate male), tra le altre cose. Voglio solo ricordare qui un amico che non è più con noi, ma che a dispetto della sua minuta fisicità era e resta un gigantesco esempio per chi l'ha conosciuto e amato come noi. Questo post è dedicato a lui: Bernie.
Se esiste un paradiso, deve avere le sembianze del Virus. E Bernie starà pogando come un forsennato prendendoci tutti per il culo.

LOS VIDRIOS QUEBRADOS - Fictions
(CD Lion Productions Records)


In una lista delle migliori cose in ambito psychedelic rock non possono non comparire i cileni LOS VIDRIOS QUEBRADOS! Questo è certo.
Provate ad immaginare nel 1967, in Cile (?!?), un gruppo di amici che cerca dapprima di scimmiottare i Rolling Stones e gli Yardbirds ma che subito dopo aver compiuto i primi passi non si accontenta di questo, come la maggior parte delle garage bands americane, ma vuole andare oltre: preso atto che la cueca (danza tradizionale cilena) non può essere cantata in inglese (che per loro è LA LINGUA) decidono di inventarsi un loro suono composto da forti influenze folk, garage fino al midollo ed anche beat ma già profondamente contaminato dalla psychedelia.
E’ così che, con una certa arroganza intellettuale, modificano gli strumenti per ottenere quello che cercano.
Considerando il panorama mondiale dell’epoca risultano ancora originalissimi ed assolutamente attuali; cosa che è subito in evidenza nell’ ascolto del loro unico, splendido, album Fictions.
L’iniziale Oscar Wilde è da considerare un capolavoro assoluto in stile primi Byrds con un suono moody e profondamente epico e con un coro da annali che si stampa immediatamente nella memoria per non abbandonarla più.
Uscito nel 1967 per la RCA records, il disco in questione, interamente cantato in inglese è stato orchestrato dal chitarrista e multi-strumetista Hector Sepùlveda ed è certamente molto più sofisticato rispetto alle altre uscite dell’epoca di qualsiasi parte del globo terrestre.
La malinconica La primavera de miss è un brano, credetemi, di una bellezza commovente, da affiancare alle migliori cose di moody-garage di tutti i tempi, con delle armonie perfette ed un flusso sonoro indimenticabile.
Ascoltate i gorghi elettrici creati dall’acuto suono di chitarra di Fictions crudo come deve essere un vero e proprio anthem garage-punk.
Le influenze gregoriane di Concierto En La Menor, Opus 3 con un bellissimo flauto che accompagna le vellutate voci che si rincorrono tra le trame fiabesche e la sinuosa ritmica creando un pathos unico.
La successiva Introduccion a La Vida Narrad Por Tio Juan  con le complesse ed intrecciate tessiture vocali ne conferma l’originalità e lo spessore.
Impossibile non perdersi piacevolmente tra le delicate volte elettriche di Las Dos Caras Del Amor.
La chiusura con la fantastica performance vocale di Como Jesucristo usa el suyo ne sancisce il valore indiscutibile e rende necessario a chiunque l’ascolto compulsivo.
Il consiglio è quello di eliminare qualsiasi prevenzione iniziale e di concentrarsi sulla sostanziale efficacia dei brani.
SATISTATION GUARANTEED...

Reverberend

giovedì 11 agosto 2016

ELECTRIC FUNERAL - Total Funeral
(2LP Southern Lord)


1981, chi scrive aveva sedici anni. A quell’età imbattersi in ascolti capaci di cambiarti la vita non è infrequente. Io mi scontrai frontalmente con i Discharge, e nulla fu più come prima. La potenza immane, la violenza urticante, i testi brevi e fulminanti intrisi di rabbia e odio verso un mondo impazzito (si era in piena guerra fredda, con l’incubo di un olocausto nucleare imminente appeso sopra le nostre teste). Non ho mai smesso di amarli, i cari vecchi Discharge: da allora la raccolta dei loro primi singoli ed EP resta un mio feticcio; quando il mio ribrezzo verso questa odiosa società supera il livello di guardia, ascoltarli diventa semplicemente necessario. Per forza di cose.
Anche il loro ultimo disco, End Of Days, uscito quest’anno è degnissimo di nota, il consiglio è di procurarvelo, magari in vinile. A fare compagnia ai Discharge (e ai Crass e ai Conflict e a tanti altri indimenticati eroi di quella stagione) oggi posso aggiungere gli Electric Funeral.
Da non confondersi con l’omonima tribute band dei Sabbath, gli Electric Funeral sono una one-man band nata dalla creatività dello svedese Jocke D-Takt (all’anagrafe Joakim Staaf-Sylsjö), che dal 2010 ad oggi ha pubblicato una decina di lavori in svariati formati: 7”, cassette, split EP. Tutti ineffabilmente in edizioni irreperibili ai più. Per fortuna ci mette una pezza la benemerita Southern Lord pubblicando, nel 2014, questo Total Funeral contenente tutta la discografia realizzata (ad ora) dalla band. Sono 53 brani dei quali non ha senso citarne alcuno, sono 53 rasoiate hardcore/crustpunk/d-beat (chiamatelo come vi pare) che se ascoltate tutte di seguito potrebbero dare luogo a pericolosi effetti collaterali. Potrebbe venirvi voglia di rispolverare i vecchi vessilli e scendere per strada, incazzati come non mai e ready to fight.
Di solito non amo le one-man band, magari è un mio pregiudizio, ma in questo caso si fa fatica a credere che dietro l’impatto micidiale di queste canzoni (!) ci sia la mente di una sola persona. A tratti il suono degli Electric Funeral sembra un mostruoso incrocio tra i Discharge di Why ed i Disorder dei primi fantastici singoli. Ma con una perfetta adesione a QUESTI tempi, grazie ad una violenza anche superiore, e ad un’aura di malignità (tipicamente scandinava, oserei dire) sconosciuta ai suddetti. Le bordate chitarristiche arrivano a lambire, pur senza abbracciarli, territori black metal, quello più grezzo ed aggressivo. L’energia che esplode da questo nerissimo doppio vinile è di quelle memorabili, non v’è dubbio alcuno.

Contro il logorio della vita moderna: PURE FUCKING ARMAGEDDON!

Edvard von Doom

THE SONICS - This Is The Sonics
(CD Re:Vox)



Ricordo la mia prima recensione per il Busca nell’ormai lontanissimo numero 68 del Marzo 1987: riguardava il secondo LP dei Sonics, Boom,  del 1966!
E’ stato il classico colpo di fulmine e non potrebbe essere altrimenti con una band che è una versione shakerata e violentata dei Kingsmen (giusto per rimanere nella stessa zona geografica) di Louie Louie.
Giusto per capirci, per chi ancora non li conoscesse, i Sonics stanno al garage-punk del northwest come i 13th Floor Elevators alla psychedelia texana.
Hanno influenzato tutto ciò che è stato punk prima del punk e poi sono stati influenti per i Nirvana, i Fall ma anche per Bruce Springsteen (lo hanno dichiarato loro stessi in interviste ufficiali) e tanti, tantissimi altri…
Il sound dei Sonics nei medi sessanta era uno shock assoluto (più dei rivali Wailers legati maggiormente a stilemi di puro r’n’r ancora troppo debitore degli anni cinquanta per essere altrettanto oltraggioso ed inconsueto): immaginate i classici riffs dei Kinks di You Really Got Me e All Day And All Of The Night  che vengono accelerati ed iper-compressi in una centrifuga dove incontrano un infuocato Jerry Lee Lewis.
Ora provate a pensare alla stessa band cinquanta (dico 50!!!) anni dopo che prepara un disco con eccellenti covers come le notissime I Don’t Need No Doctor (Ray Charles), You Can’t Judge A Book By The Cover (scritta da Willie Dixon) e l’arcinoto singolo Motown del 1963 Leaving Here (tra le innumerevoli renditions ricordiamo quella incendiaria dei magnifici Birds inglesi di Ron Wood pre-Stones) in questa occasione rese davvero roventi con il martellamento aggiuntivo del piano e del sax che incrementano ulteriormente i ritmi cadenzati e spaccaossa.
Gli originali non sono certo da meno con un drive pazzesco come quello di Sugaree, I Got A Number o Livin’ In Chaos solo per citarne tre.
Durante il cammino per questo album nuovo di zecca hanno incontrato Jim Diamond (dei Ghetto Recordings studio) ovvero il produttore di Detroit che ha aiutato non poco Jack White a trovare il proprio suono quando ancora i White Stripes incidevano per la indie label Sympathy for the Record Industry.
La registrazione, rigorosamente in mono, è esplosiva ed essenziale!
La band non ha perso nulla, credetemi, dell’attitudine che aveva durante gli anni d’oro di questa musica ed il sound ci restituisce perfettamente la loro devastante carica on stage come se fossero magicamente ritornati negli anni sessanta in una capsula del tempo.
L’urgenza e l’entusiasmo che permeano ogni nota ed ogni riff di chitarra di ogni singolo brano di questo disco hanno realmente dell’incredibile, se poi si considera che i componenti (originali come Jerry Roslie, Larry Parypa e Rob Lind supportati dalla potente sezione ritmica di Freddie Denis –Kingsmen- e Dusty Watson –Dick Dale, Agent Orange-) hanno un’età media di oltre settant’anni bisogna ascoltare attentamente il disco per capacitarsi dell’unicità di un ritorno come questo.   
This is the real ROCK’N’ROLL! 



Reverberend