Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

mercoledì 30 novembre 2016

HÉLÈNE GRIMAUD – Water
(CD/LP Deutsche Grammophon)


Musicista di vaglia e artista dai molti talenti (non ultimo quello di apprezzata scrittrice), fondatrice del Wolf Conservation Center per la salvaguardia dei suoi amati lupi e dell’ambiente naturale tout court; Hélène Grimaud continua ad affascinare i suoi ammiratori anche con questo ultimo lavoro, uscito a febbraio di quest’anno. La quarantaseienne pianista francese (ma davvero cittadina del mondo), universalmente acclamata per le sue interpretazioni di Chopin, Brahms e Rachmaninov, questa volta propone un’opera, interamente registrata dal vivo; che è stata oggetto di varie performance, il cui tema portante è, come dice il titolo, l’acqua.
Si tratta di una raccolta di brani per pianoforte dove l’acqua ed il simbolismo che essa si porta appresso fungono da trave concettualmente portante. Ad accompagnarla in questo disco troviamo il compositore anglo-indiano Nitin Sawhney (anche come produttore): la sua funzione è quella di intervallare i brani interpretati dalla Grimaud con delle improvvisazioni elettroniche denominate Transitions. Ma andiamo con ordine. Le composizioni scelte dalla bella pianista (a proposito: lo sapevate che le copertine dei suoi dischi rivaleggiano con quelle delle più famose popstar, iconograficamente parlando?) spaziano dal classicissimo Jeux d’Eau di Maurice Ravel a Wasserklavier di Luciano Berio a Barcarolle di Gabriel Fauré; in tutti i brani l’acqua non rappresenta solo se stessa ma anche i concetti di flusso, movimento, metamorfosi e incatturabilità. Un pezzo come Almeria di Albeniz, per dire, ha in sé “l’ondulazione ritmica che rispecchia la vita, scandita dal mare, della popolazione di quella città costiera” (parole sue).
E potremmo anche dire che una delle idee più accattivanti, che stanno dietro al concetto di acqua, è la sua capacità di cambiare stato: come spiegare sennò la presenza di quel capolavoro che è In The Mists (Nelle Nebbie) di Janaček?
Dicevamo prima delle Transitions di Nitin Sawhney: invero parrebbero non centrare nulla con le altre composizioni, ma la loro presenza è quasi una necessità. Immaginatevi di passare da una stanza all’altra di un fantastico palazzo: i brani sono le varie stanze, le transizioni potrebbero essere i corridoi. Ma, per rimanere in tema acquatico, mi piace pensare che si tratti di una specie di bagno purificatore, un liquido amniotico attraverso il quale purificarsi prima della nuova esperienza che ci attende. In ogni caso, l’insieme del tutto è rapinoso e affascinante.
A conti fatti, è l’ennesima sfida (vinta, va da sé) di un’artista che non è mai scesa a compromessi e si è sempre esposta in prima persona con le sue scelte di repertorio e di vita, che non ha mai guardato in faccia a nessuno e ha sempre detto ciò che pensa. Memorabile, in proposito, la volta in cui ha mandato allegramente a quel paese quel vecchio trombone intoccabile di Abbado, reo di non volerle far suonare la cadenza di pianoforte da lei scelta, per un concerto di Beethoven! Pochi avrebbero avuto il coraggio di contraddire il venerato Maestro…
Da gennaio 2017 la vedremo nuovamente al fianco della violoncellista Sol Gabetta per una serie di concerti con musiche di Pärt, Schumann, Debussy e (non manca mai!) Brahms.
Altre magie ci attendono…

Edvard von Doom

martedì 29 novembre 2016

ROLLING STONES - Blue & Lonesome
(CD/LP Polydor Records)


Il ventitreesimo album inglese dei ROLLING STONES (ed il venticinquesimo americano) è FANTASTICO (cuore) ed INUTILE (testa).
FANTASTICO perché è composto di sole covers semisconosciute di blues, il genere musicale che ha dato loro un significato epocale ed inarrivabile nella storia della musica rock: è un omaggio ai loro padri spirituali.
Certamente va poi considerato che a differenza dei “cugini” americani i nostri beniamini inglesi non hanno copiato filologicamente i grandi maestri ma hanno avuto, sin dall’inizio, un approccio più spregiudicato ed hanno saputo shakerare e reinventare dall’interno un genere nato in America e rimbalzato, nel corso della storia, tra le due sponde dell’Atlantico.
INUTILE perché siamo tutti d’accordo che è un disco che nulla toglie e nulla aggiunge a quanto fatto dagli stessi STONES in tutta la loro carriera.
Come avrebbe potuto essere altrimenti? Gli STONES avevano già fatto più di qualsiasi altra rock band sul pianeta terra tanto tempo fa’. Avrebbero potuto scomparire già da molto tempo; non avrebbe fatto differenza alcuna in senso storico. Anche su questo siamo perfettamente d’accordo. Non è questo il punto.
Analizziamo il disco senza troppe elucubrazioni.
Lo slogan utilizzato da MICK JAGGER per la promozione è: “Cinque decadi per realizzarlo, soltanto tre giorni per registrarlo”.
Il disco è stato registrato nei British Grove Studios di West London, non lontano da Richmond dove sorgeva il CRAWDADDYS, il leggendario club dove iniziarono la carriera ANIMALS, YARDBIRDS e tutte le bands inglesi della nuova ondata “blues” e “rythmn & blues” agli inizi degli anni sessanta.
L’inizio di tutto in un certo senso.
Prodotto da DON WAS, oltre che dalla magica coppia, Blue & Lonesome  ha un suono FANTASTICO, caldo e vintage, proprio come allora: INCREDIBILE!
I brani della tracklists prevedono esclusivamente dodici covers, poco note, di LITTLE WALTER, CHESTER BURNETT, HOWLIN’ WOLF, WILLIE DIXON, EDDY TAYLOR… insomma il disco è proprio la chiara testimonianza della purezza dell’amore che la band nutre ancora nei confronti del BLUES elettrico americano.
Sembra di sentire una band di giovani strafottenti che scimmiotta gli stessi STONES di metà anni sessanta: per essere più precisi sembra un album dei CHESTERFIELD KINGS di GREG PREVOST, se capite ciò che voglio dire.
Badate bene che anche il primo album della band di GREG PREVOST, uscito nel 1982, Here Are…. era composto interamente da covers ma, in questo caso, di oscure bands garage-punk dei medi sessanta americani post  britsh invasion (che all’epoca nessuno conosceva quindi era come se fossero brani nuovi per la maggior parte delle persone) ed anche in quel caso c’era chi sosteneva che non aveva senso realizzare un album di sole covers eseguite, per di più, in maniera assolutamente ossessiva e filologica.
Per assurdo, uno dei dischi più puri in campo rock: un atto d’AMORE ASSOLUTO.
Esattamente come in questo caso.
Il ritorno alle origini del suono.
Al suono più puro.
Amore puro e trasparente.
Il paragone con i CHESTERFIELD KINGS viene spontaneo perché il suono è caldo e ruvido come da tempo non succedeva negli album degli STONES, ed è proprio il suono perfetto per questo tipo di brani: diretto, potente e senza inutili fronzoli!
OGGI come ALLORA, perché come ho sempre sostenuto, certo tipo di rock, istintivo e primordiale, non ha bisogno di alcuna evoluzione contenendo già di per se’ tutta la carica eversiva che necessita per dare un senso compiuto a quel tipo di suono nato crudo e selvaggio come rappresentazione sonora della rabbia e frustrazione di chi è nato dalla parte sbagliata: nati perdenti!!
AUTENTICO CIBO PER L’ANIMA… Statene certi.

SATISFACTION GUARANTEED!

Reverberend

VV.AA. - HIGHWAY PRAYER: A Tribute to Adam Carroll
(CD Eight 30 Records)


ADAM CARROLL è un musicista poco conosciuto fuori dal Lone Star State (Texas) eppure ha un’importanza focale per quella terra tanto da essere sempre paragonato a giganti come JOHN PRINE e TOWNES VAN ZANDT.
Questo tributo è realmente FANTASTICO.
I suoni e le canzoni presenti hanno un’unica religione: le strade che attraversano il grande nulla, la terra unica ed insostituibile quale è l’America, questa America, la sua mitologia ed i suoi segreti.
Sono presenti quindici canzoni senza alcuna caduta di tono e con picchi di assoluta eccellenza (JAMES McMURTRY, HAYES CARRL, SLAID CLEAVES, mi fermo altrimenti li cito tutti) ed una bonus track dello stesso ADAM CARROLL, la bellissima My Only Good Shirt.
I suoni arrivano dal cuore, dal cuore del Texas, e lì ritornano in un magico cerchio che si chiude perfettamente.
In fondo è lo stesso percorso intrapreso da LEAST HEAT-MOON (il suo libro manifesto Strade blu) o da ALEX SHOUMATOFF (Leggende del deserto americano); un viaggio al centro della terra, di quella stessa terra che ha dato i natali a questi suoni, a questo modo di fare musica, di raccontare il territorio e di scioglierlo nelle nostre vene.
Immaginate di essere su di un greyhound ed abbandonate ogni pensiero, concentratevi su ciò che vedete fuori dal finestrino: vedrete vite di tante persone che sono nate, cresciute e morte per la loro terra (le stesse persone che abitano i suoni di tutte le canzoni presenti in questo disco), sentirete i loro racconti, le loro leggende, la loro storia.
La storia della nostra musica.
La cosa incredibile è il legame indissolubile, come un immaginario filo con tanti nodi, tra territorio, racconti orali e suoni.
Una cosa sola e forse è proprio questo che rende unici, sempre uguali a se stessi e sempre differenti, questo genere di musica fortemente tradizionale ed ugualmente emotiva.
Abbandonatevi in questo deserto di note e, come scrive nell’introduzione di questo CD BRAIN T.ATKINSON: “queste canzoni allieteranno l’alba del vostro domani…”.

E’ una promessa, credetemi.

Reverberend

THE BLEU FOREST - A Thousand Trees Deep
(CD Gear Fab)


Ho passato parecchio tempo della mia vita viaggiando (la rete informatica ed i computers erano ancora, forse direi fortunatamente, degli alieni per i più) alla ricerca di dischi e ristampe di misconosciute e dimenticate bands dei medi sessanta trovandone davvero tante per nulla considerate e davvero meritevoli di un riconoscimento o almeno di attenti ascolti.
Dopo tanto tempo e innumerevoli ascolti trovavo veramente difficile entusiasmarmi nuovamente per dischi di quel proficuo ed irripetibile periodo storico sino a quando un mio caro amico mi ha sottoposto questo ritrovamento di un disco del 1968 mai uscito all’epoca e ricavato dai nastri scoperti nel semi interrato dell’unico membro della band sopravvissuto, ovvero Jack Caviness.
Beh, gente, ci troviamo di fronte ad un piccolo classico perduto tra le sabbie del tempo senza dubbio.
La cover, perfetta, ci trasporta in territori come Ventura County, dove erano nati appunto i BLEU FOREST; territori dominati da foreste fiabesche e grandi spazi che ritroviamo avvolti nelle crepuscolari e malinconiche trame dei brani in puro stile moody con tanto di organo che rende il suono più spesso, materialmente, che permeano come un manto di un inverno temibile ed affascinante al tempo stesso.
Davvero impossibile scindere i brani di A Thousand Trees Deep dal territorio fortemente caratteristico di provenienza.
Come potete immaginare la gestazione di queste registrazioni è stata molto avventurosa, tra le colline di Hollywood, lo studio di Jimmy Haskell e tutte le registrazioni ripetute per avere un migliore suono di batteria, i continui sacrifici, i concerti con leggende minori come CHILDREN OF THE MUSHROOM (procuratevi assolutamente la ristampa della spagnola Out Sider Rec. per poter ascoltare il loro unico 45 giri August Mademoiselle / You Can’t Erase A Mirror, vero capolavoro di psychedelia di ogni tempo e latitudine) ed infine l’oblio totale.
E’ incredibile il lavoro di veri e propri archeologi svolto da persone come Mike e Antonio rispettivamente della tedesca Gear Fab Records e della portoghese Golden Pavillon Records-
Il suono della band si può collocare tra i grooves psichedelici e soffici dei migliori MOBY GRAPE con punte più heavy che, non solo per l’uso dell’organo, fanno pensare ai primi STEPPENWOLF!
Difficile immaginare una band così?
E’ vero, ma ascoltando brani come Look At Me Girl o That’s When Happiness Began è chiaro che ci si trova di fronte ad un prezioso oggetto del desiderio per non parlare di perle più malinconiche come She Said She’s Leaving o la finale Trouble.
Descrivere a parole la sensazione che provo ancora oggi all’ascolto di dischi come questo è davvero arduo ma forse anche del tutto inutile.
Adoro scrivere di tutto questo anche se, in cuor mio, lo faccio più per me stesso che per chiunque altro possa leggere quanto scrivo.

Reverberend

venerdì 18 novembre 2016

UNHOLY - The Second Ring Of Power
(CD Avantgarde Music)


Finlandia: terra di laghi, renne, zanzare e bands metal. Il primo nome che mi viene in mente è quello dei Sarcofagus, i quali, parallelamente a quello che stava accadendo in UK (leggi NWOBHM) aprivano la via al suono pesante finnico con la loro meravigliosa musica intrisa di dark sound anni ’70 e schegge di acciaio. Da lì in poi è stato un susseguirsi di gruppi dediti ad ogni aspetto delle varianti metalliche, come per esempio il black finlandese, sensibilmente diverso (di sicuro più marcio e meno prodotto) da quello norvegese e svedese. A tal proposito come dimenticare nomi del calibro di Enochian Crescent, Horna o Satanic Warmaster.
Anche i gruppi di area doom sono sempre stati numerosi, alcuni di questi hanno raggiunto vette notevoli in questo campo (se state pensando ai Reverend Bizarre siete nel giusto). Ma un gruppo in particolare ha toccato vertici di inusitata e inaudita eccellenza: gli Unholy.
Autori di quattro venerati album tra il 1993 ed il 1999, tutti indistintamente da avere, e poi risucchiati nell’abisso dal quale erano sgusciati fuori. The Second Ring Of Power è, come dice il titolo stesso, il loro secondo lavoro e scrivo di questo solo per motivi di affezione, essendo stato il primo loro disco sul quale ho potuto mettere le mani; ma quello che scrivo vale anche per gli altri.
Pubblicato nel 1994 dalla nostrana (e benemerita!) Avantgarde Music, il secondo degli Unholy è un capolavoro doom di difficile catalogazione, tanti sono gli spunti d’interesse che vi albergano, a partire dalla strumentazione che comprende anche tastiere e violino.
La colonna sonora perfetta per riti bizzarri officiati in templi dimenticati, in un bad trip acido dove statue corrose e divelte sogghignano negli angoli bui… Rispetto all’esordio From The Shadows, il songwriting si fa più strutturato e la produzione più precisa, ma resta un alone di semi improvvisazione su tutti i brani; i tempi sono lenti e striscianti, si prova una sensazione tangibile di instabilità mentale grazie alla voce di Pasi Aijo impregnata di dolore e angoscia, dove le urla, i growls e i sussurri si dispiegano con grande effetto.
Dicevo della produzione: sicuramente potente e spaziale, con una separazione più netta degli strumenti, in particolare risalta il basso, mai troppo distorto e in grado di colorare le atmosfere dei brani con spunti notevolmente originali. Anche le onnipresenti tastiere contribuiscono a creare suggestioni da brivido mai banali, anzi. Procession Of Black Doom è forse il brano più emblematico, con la voce sofferente e rabbiosa e il suono delle chitarre a livelli notevoli di distorsione, eppure sottile, se capite cosa voglio dire.
Lady Babylon vede alla voce l’ospite Veera Muhli (anche alle backing vocals in altri brani) e si tratta della canzone più sognante e psichedelica del disco. Neverending Day ha un appeal funeral doom ante litteram ed il refrain finale cantato da Veera e Pasi all’unisono richiama alla mente addirittura i Christian Death di Gitane Demone.
Tutti i brani sono di altissima fattura, ma è impossibile non fare menzione d’onore per la traccia conclusiva Serious Personality Disturbance And Deep Anxiety: autentica summa filosofale degli Unholy. Ha un’introduzione lenta, jazzata e orientaleggiante, nella quale i vocalizzi folli di Pasi sembrano i deliri di un drogato in preda di visioni degne di Lovecraft; si sviluppa lenta e ondivaga piena di strane vibrazioni… Meravigliosa follia.
Un disco (e un gruppo) non per tutti, da centellinare come un prezioso liquore nell’inverno prossimo venturo. Un bizzarro monolite intorno al quale si radunano gli sciamani di culti perduti nella notte dei tempi.
Avvicinatevi con cautela, potreste non riuscire a farne a meno…

Edvard von Doom

giovedì 17 novembre 2016

LE ONDE ELETTRICHE DEI MISTICI MODERNI

Nel marasma del modernismo globalizzato nel quale ci troviamo può succedere che nascano cose intrinsecamente interessanti come, per esempio, degli ibridi musicali pensati dalla generazione che meglio riesce ad assorbire ed interpretare tutti gli innumerevoli input che la nostra epoca offre.
I giovani di oggi riescono, di fronte alla disponibilità pressochè totale di un oceano di musica, a pescare a piene mani dal passato inserendo perfettamente ogni intuizione in un contesto decisamente attuale.
Probabilmente hanno dalla loro parte la consapevolezza di poter/dover assorbire tutto lo scibile musicale, come del resto qualsiasi altra cosa, con una velocità diversa dettata principalmente dall’avvento di una tecnologia (il world wide web o più comunemente la rete) che permette sempre il qui ed ora con una simultaneità sino ad oggi sconosciuta.
Ad onor del vero, sarà per la mia età (quest’anno sono cinquanta), ma ho sempre, sino ad ora, mal sopportato il melting pot di vari generi (anche se a tempo debito, anni novanta, mi ero appassionato a certo crossover fuori dagli schemi) soprattutto se in questi sono presenti, in ogni possibile forma, i miei amati sixties: preferivo le bands filologiche perché nulla poteva essere meglio di quanto fatto in quella magica epoca ed era quindi inutile pensare di attualizzare una formula senza tempo!!
Beh, oggi sono cambiato forse anche a causa di quanto appena esposto, quindi ho iniziato ad ascoltare in maniera più flessibile quanto per me una volta non era fondamentalmente concepibile a causa della mia ristrettezza mentale, devo ammetterlo.
Tutto il mercato indipendente è stato certamente smosso, negli ultimi dieci anni, da figure centrali e pionieristiche come quelle del giovane Ty Segall (nato a Laguna Beach, USA nel 1987) che è ormai giunto al suo ottavo (?!?) album e del più attempato John Dwyer con i suoi Oh Sees (gli albums sono dieci ad oggi!!) ed i suoi progetti paralleli dove tutti i generi vengono mischiati e fagocitati, seguendo il loro background fatto di ascolti dei più disparati (tipici della generazione dell’immediata disponibilità totale o, se preferite, dell’usa e getta) che si traspongono nel loro percorso musicale ed artistico: lo specchio dei tempi moderni.
E’ così che anche tutti i generi musicali noti (siano essi garage, psychedelia, new wave, punk, post-punk….) hanno progressivamente assunto connotazioni differenti in funzione di una rinnovata attitudine al, diciamo così, meticciato.
Il primo colpo di fulmine istantaneo mi era successo, ricordo nitidamente, con l’ascolto dei Crystal Stilts, bands di Brooklyn (New York) dedita ad una formula molto interessante di ibridazione sonora.


Formatisi nel 2003 hanno esordito sulla lunga distanza soltanto nel 2008 con Alight Of Night, ovvero un esordio che amalgamava con disinvoltura sonorità ricche di reminiscenze debritrici dei Joy Division di Unknown Pleasures  (in primis la profonda voce di Brad Hargett, il carismatico leader) con l’aggiunta di echi e distorsioni chitarristiche di pura marca Jesus & Mary Chain (Psychocandy, naturalmente), ritmiche sempre cadenzate e melodie completamente immerse in un climax sixties in rigorosa bassa fedeltà.
Il successivo In Love With Oblivion del 2011 prosegue egregiamente sulla stessa linea muovendosi maggiormente in direzione pop! Con il terzo Nature Noir del 2013 hanno immesso, nel già poliedrico sound, anche marcate influenze di Byrds con un frequente uso del caratteristico jingle-jangle che li vede orientati verso lidi folk-rock ed un suono più pulito senza perdere nulla in freschezza.

Onestamente non sono mai andato a cercare bands simili a loro sino a quando mi è casualmente capitato di comprare Relax, secondo splendido album degli Holy Wave nel 2014.

Gli Holy Wave provengono dal giro di Austin legato alla Reverberation Appreciation Society (la loro etichetta discografica) ed ai più noti Black Angels. Anche loro sono un bellissimo ibrido di new wave (quella buona degli anni novanta che parte da certe cose di scuola 4AD ed arriva a lambire certo math-rock più morbido), fortissimi echi sixties, soprattutto per quanto riguarda le melodie e le parti vocali, che rimandano direttamente a quel magico periodo, la ritmica più orientata verso una metronomica matrice di origine krauta anni settanta e certo punk, primi anni ottanta, non scalfito ancora da nessun spasmo hardcore.
Con il nuovo Freaks Of Nurtur, il loro flessuoso sound ha spiccato il volo verso lidi ad alto tasso allucinogeno perfettamente riscontrabile già dall’opener She Put a Seed In My Ear, leggiadra e sicura con ritmica sincopata e voce altamente evocativa.
L’indimenticabile melodia catchy di Western Playland si incolla in maniera indissolubile nella nostra memoria e ci accompagna alla successiva, dai forti richiami di garage moderno, You Should Lie.
Come brano manifesto possiamo prendere California Took My Baby Away, dove un paesaggio sonoro lieve e delicato di chitarre dolcemente stratificate ci avvolge come una nebbiosa mattina sulla spiaggia e la voce armoniosamente intensa ci accarezza nel ricordo di memorie ancora nitide e presenti.
Un radioso futuro li attende se continueranno a svilupparsi in questa interessante direzione.
Dalla soleggiata California provengono invece i molto promettenti Levitation Room che con il loro primo album Ethos (che contiene quattro brani già precedentemente apparsi nel loro già riuscitissimo mini LP di esordio dell’anno scorso intitolato Minds Of Our Own) riescono a creare una splendida tessitura di soavi e sognanti atmosfere dreamgaze (vale a dire shoegaze iterativo ma dolce ed etereo) con profonde radici sixties immerse nella psychedelia più rarefatta con chitarre trattate e fluttuanti e melodie sempre sugli scudi.
Album che riesce in mezz’ora tirata, con forti inserimenti di garage, diluito in acidissime spirali di chitarra (Cosmic Flowers e la magnifica Loved), a non sbagliare un colpo inserendo brani moody da manuale come Reason Why o There Are No Words, quest’ultimo dai forti richiami dei migliori Seeds, con il fuzz egregiamente somministrato, nenie orientali come Plain To See, lenta e sognante, ed anche Till You Reach Your Last Breath e la finale Crystal Ball dove i delicati arpeggi di chitarra e la voce modulata e sensuale ci invitano ad entrare nel loro magico mondo catapultandoci in un caleidoscopio pazzamente colorato.


Ora si fa’ un salto a Melbourne (Australia) dove si sono formati i fantastici Murlocs, giovanissma band che ha assimilato perfettamente la lezione di conterranei maestri sixties come Master Apprentices (prendete come esempio l’immortale brano Wars Or Hands Of Time presente sul loro omonimo debutto datato 1967) e, vivendo nel presente, ha saputo diluire il suono in un molteplice gorgo di sinuosi riverberi zeppi di riferimenti anni novanta (new wave, post punk, punk, dream pop, shoegaze………..).
Questa band è veramente unica per attitudine e sicurezza dei propri mezzi: in loro la matrice garage / R & B è decisamente posta in evidenza (il suono è molto in linea con le produzioni del periodo 1965/1966) ma la vera particolarità è la voce di Ambrose Kenny-Smith, fragile ed infantile, con un trasporto ed una presenza così peculiari da ammaliare chiunque.
Anche nel loro caso le melodie hanno un’importanza cruciale; vedi gli illuminanti esempi distribuiti nei loro, ad oggi, due albums, ripettivamente Loopholes (2014) ed il nuovo Young Blindness (2016).
E’ un vero piacere lasciar scorrere brani come la sognante e sospesa Control Freaks , tra riverberi elettrici ed armonica avvolgente, come anche Paranoid Joy, completamente fuori dal tempo, persa in una dimensione psychedelica caratterizzata da innocenti visioni adolescenziali (entrambe tratte dal primo Loopholes).
Il recente Young Blindness li conferma a livelli di assoluta eccellenza, distribuendo le intuizioni dall’iniziale incalzante Happy Face, proseguendo con la cadenzata Young Blindness dove è la splendida voce filtrata a guidare le danze sino ad arrivare alla lenta ed ipnotica Rolling On, densa di aromi peace & love ed alla conclusiva Reassurance, più pop ed evocativa.
Rimanendo sempre nei dintorni di Melbourne e precisamente a Geelong non possiamo esimerci dal citare i Frowning Clouds che dalla posizione filologica del primo album del 2009 (Listen Closelier) contenente anche una fantastica cover di Do Like Me degli indimenticati Uncalled For, anno 1967, si sono progressivamente spostati tra le pieghe allucinogene del secondo album del 2013 (Whereabouts) sino ad arrivare, nel 2014, alla  perfetta deriva psychedelica del terzo Legalize Everything (il titolo dovrebbe rendere chiaro il concetto).
Tra le misteriose ed affascinanti “mille luci di New York” sono nati e cresciuti invece i Mistery Lights, vero e proprio oggetto non identificato catapultato nell’attuale panorama musicale odierno da una dimensione parallela.
Dopo un ancora acerbo debutto nel lontano 2009 (Teenage Catgirls And The Mistery Lightshow) ed un altrettanto acerbo seguito, disponibile esclusivamente in cassetta, nel 2015 (At Home With The Mistery Lights) sono approdati al recente e prodigioso manifesto rappresentato dall’omonimo terzo album ufficiale registrato totalmente in analogico nei vintage studio della Daptone Records, House of Soul!
Provate ad immaginare una band con un suono filologico (1965/1966) ma un’attitudine figlia del periodo post-punk migliore (Killing Joke in primis) o, se preferite immaginate una band come, per esempio, i succitati Killing Joke che realizza un album di covers dei Chocolate Watchband o Music Machine.
L’album in questione è una sorprendente summa del migliore garage punk odierno con un’attitudine angolare e spigolosa tipica di certo math-rock (Don Caballero), cosa ben udibile sin dalle iniziali squilibrate evoluzioni delle scorribande elettriche di Follow Me Home dove la performance del vocalist, chitarrista e frontman Mike Brandon è veramente strepitosa. Credetemi, nel genere tra le cose migliori oggi in circolazione.
Se volete trovare un’attualizzazione dei suoni che abbiamo amato ma che non appartengono più, per forza di cose, alla nostra epoca, potete senza timore di smentita, cercarla in nuove bands come quelle che ho provato a proporvi tra le tante che si muovono in questa direzione: l’unica possibile oggigiorno?
Certamente no, ma una valida alternativa per cercare di avere una visione ottimistica di ciò che ci attenderà!

Fabio Reverberend Avaro

VV.AA. - Bullshit Detector, Vol.2
(2LP Crass Records)


Gli insondabili spazi mentali relativi alla memoria ed ai ricordi sono sempre molto distanti dalle strade schematiche della razionalità.
L’etimologia della parola ricordo è da ricercarsi, come spesso accade, dal latino re-indietro e cor-cuore: richiamare in cuore.
E’ quindi spesso legato, il ricordo, ad un’associazione di immagini o situazioni del passato con forte intensità emotiva rivissute nel presente.
Perché il ricordo è rivissuto nel qui ed ora: adesso, con tutto ciò che il presente comporta e condiziona.
Non so’ proprio spiegare razionalmente per quale motivo, oggi, esattamente trentaquattro anni dopo (il disco in oggetto usciva nel lontano 1982), sono intento a rivivere le sensazioni intensissime che l’ascolto di quest’ultimo ancora comporta.
Ma questo, in fondo, non è importante.
Questo disco è intrinsecamente legato all’universo che ruotava intorno ai CRASS di Penny Rimbaud e Steve Ignorant ed alla loro comune di anarco-pacifisti inglesi.
I CRASS erano riusciti a creare un loro mondo, parallelo a quello reale!
Non contenti di come il mondo reale si fosse de-evoluto erano riusciti a proporne una loro versione riveduta e corretta secondo il loro credo.
E’ con questa visione che hanno immaginato i volumi di Bullshit Detector (tre dal 1980 al 1983 e poi uno, non ufficiale, aggiunto nel 1994 e prodotto dalla anarco-punk label svizzera Resistance Productions Rec.), spronando tutte le persone che gravitavano intorno a loro a creare e ad inviare i loro demo-tapes con art work social-visionari e tutto ciò che riuscivano a pensare nell’ottica della più genuina etica punk del d.i.y..
E’ quindi chiaro che la qualità del suono, sempre piuttosto crudo, povero e primitivo, non rientra nelle caratteristiche primarie di questa mitica serie anche perché i CRASS non hanno voluto intervenire con nessuna aggiunta o modifica in fase di produzione.
Questa era la loro etica: prendere o lasciare!!
Il disco, un doppio vinile, corredato come era consueto ed identificativo nel mondo dei CRASS e della loro etichetta completamente autogestita (e con prezzo massimo imposto contro le logiche di mercato) con un poster pieghevole in bianco e nero con foto della famiglia reale con i teschi al posto dei volti ed un cut-up interno di immagini che permettevano a chiunque di entrare nel loro mondo, saldamente ancorato alle condizioni della working-class e del proletariato inglese di quegli anni (gli anni drammatici di Maggie Tatcher) e di tutti i loro sogni e bisogni attraverso i testi delle loro canzoni.
Dei tretntotto brani di questo doppio vinile voglio soffermarmi solamente su quello di una misconosciuta band chiamata THE SUSPETCS: il loro brano si intitola Random Relations.
A quei tempi ho passato tanti momenti guardando il collage di foto all’interno della cover e precisamente soffermandomi su una foto di due punks adolescenti seduti su di un muro con, alle spalle, un grigio condominio molto simile a un casermone senza scampo, a una prigione!
Quando i miei occhi si posavano su quell’immagine e sui due ragazzi, mentre scorreva lo splendido brano dei SUSPETCS, atipico, dalle cadenze quasi reggae, la mia fantasia iniziava a creare possibili scenari della loro quotidianità.
Con lo sguardo vacuo, perso nel vuoto della periferia senza presente e senza futuro nella quale vivevano (Norwich), mentre la voce raccontava come trascorrevano i loro giorni, come potevano trascorrerli; giorni pieni di rabbia e frustrazione per un lavoro assurdo e mal pagato, per il crescente incubo nucleare, per la noia e la mancanza di qualsiasi prospettiva.
Nulla è mai stato facile, giravano di posto in posto alla ricerca di una speranza per il loro futuro senza ottenere mai alcuna risposta. La migliore cosa che potevano fare era quella di tornare da dove erano partiti e riprendere tutto da capo.
Girarsi intorno ed aspettare di diventare pazzi…
Tutto, ma proprio tutto, era perfetto per capire, oggi come allora, le condizioni della maggior parte dei giovani di allora, dei giovani inglesi di allora.
Pensare lucidamente che quelle condizioni non sono troppo dissimili da quelle dei giovani italiani di oggi mi riempe di tristezza.
Chi avrebbe mai ipotizzato che oggi saremmo finiti completamente travolti ( per fortuna non tutti!) da talent-shows, come X-FACTOR e compagnia, pensati unicamente nella logica del profitto, con buona pace di Manuel Agnelli che in tutto questo bailamme ha trovato la sua luce!

I ricordi ri-affiorano sempre: THE DECLINE OF WESTERN CIVILIZATION!!

Reverberend

DATURA4 - Hairy Mountain
(CD Alive Natural Sounds)


DOM MARIANI è una figura centrale nella riscoperta del suono sixties; sin dagli anni ottanta, prima con i fantastici STEMS (dal suono più morbido e byrdsiano) poi con i DM3 (più power pop alla FLAMIN’ GROOVIES) e con tante altre bands ha sempre creato dischi influenzati magicamente da quella irripetibile decade.
GREG HITCHCOCK, alla maggior parte delle persone meno noto, ha avuto un ruolo importante con i suoi YOU AMI (dal corposo suono rock tipicamente australiano) e poi anche con i NEW CHRISTS in una delle loro reincarnazioni nel proporre solide melodie dal sapore sixties in un contesto più ampio.
Ho sempre letto e seguito le gesta di DOM MARIANI perchè ha sempre avuto dalla sua, diversamente da molti altri personaggi del “giro” , una penna magica ed un occhio speciale per le melodie che, in un genere come il rock dei sixties, hanno sempre avuto un’ importanza capitale.
Diciamo onestamente che da tempo, essendo un po’ stufo del genere (avendo già diverse migliaia di dischi nella mia collezione!!!), mi soffermavo alla lettura e non approfondivo ulteriormente.
La verità è che negli ultimi tempi riguardo tutto ciò che ascoltavo che gravitava intorno alla galassia sixties, sia per quanto riguardava bands psichedeliche sia per quanto riguardava bands di impronta più pop-oriented o più garage, tendevo ad essere iper crtitico ed a trovare piccoli difetti da criticone invecchiato male, tipo dire quasi sempre che mancavano i brani o erano scolastici o non erano niente che valesse la pena di essere ricordato.
Moltissime bands hanno un’immagine ultra-cool, suono incredibile e filologico ma non sono capaci minimamente di costruire una serie di accordi degna di essere ascoltata per più di una volta.
Questa è la triste realtà di ciò che è rimasto oggi della scena sixties oriented.
Dopo aver ascoltato per tanti anni bands oscurissime del passato (tramite le ultra limited editions di compilations da tutto il globo terrestre) e bands altrettanto oscure del presente (avendo i contatti con tutte le persone della scena) probabilmente oggi voglio solo il meglio del meglio.
Un giorno qualsiasi mi è capitato per puro caso di ascoltare in rete Fools Gold Rush, brano di apertura di Hairy Mountain , e di essermene assolutamente innamorato come non mi capitava da tanto tempo.
Il brano è realmente sensazionale: pura perfezione melodica con un suono bilanciato, cristallino, molto elettrico con tentazioni hard ma senza esserlo e le voci calde e nitide sugli scudi.
Insomma l’ho immediatamente ordinato ed appena mi è arrivato, dopo aver ammirato la fantastica cover ultra-psychedelica di Joshua Marc Levy sono rimasto letteralmente ipnotizzato da un disco che rasenta la pura perfezione.
Credetemi, nel genere, è difficile anche immaginare un disco ed una bands così completi e definitivi.
I brani alternano melodie che possono rimandare solo ai BEATLES più maturi o agli STONES più puri, con un appeal psichedelico degno dei migliori CHOCOLATE WATCHBAND fusi in maniera eccelsa alla totale ipnosi elettrica degli STOOGES di Raw Power, il loro terzo ed ultimo capitolo prima del crollo verticale.
Beninteso il disco è ultra elettrico ma per nulla violento.
Il suono e la costruzione di TUTTI i brani è così compatta e riuscita che non ricordo nemmeno da quanto tempo non mi capitava di ascoltare qualcosa di così bello in un genere così inflazionato (i DATURA4 hanno realizzato anche Demon’s Blues, loro esordio, bellissimo anche se leggermente, questione di virgole, sottotono rispetto a questo nuovo album).
Davvero non c’è NULLA da poter aggiungere: il consiglio è quello di godere ad occhi chiusi durante lo scorrere dei brani.
E’ solo da gente che AMA letteralmente la propria vita e la musica che esegue che ci si può aspettare qualcosa di così puro e compiuto.
Quando meno te lo aspetti, anche dopo tanti anni di ascolti ossessivi, ti capita di trovarti emozionato davanti all’ hi-fi e gioire come un ragazzino inconsapevole di tutto ciò che lo circonda.

Grazie DOM e grazie DATURA4.

Reverberend

martedì 8 novembre 2016

SINISTRO - Semente
(CD Season Of Mist)


Il promo sheet che accompagna il secondo disco dei portoghesi Sinistro (il primo per la Season Of Mist) li definisce doom. Come mille altre band in circolazione ai nostri giorni. Se ci aggiungiamo che tranne la cantante, tutti gli altri musicisti sono etichettati con una singola lettera, ce n’è abbastanza per suonare l’allarme… Invece, sorprendentemente, il disco è uno dei migliori usciti quest’anno, parola mia (l’ho già detto e lo ridico: il 2016 è l’anno delle fanciulle, fidatevi).

Formato da elementi provenienti dai punk rockers We Are The Damned e dai grinders Atentado, con la cantante Patricia Andrade, impegnata anche come attrice ed in altri progetti musicali lontani dal metal, il gruppo dei Sinistro è fautore di una musica assolutamente impressionante e a tratti davvero originale. Provate ad immaginare un ibrido costituito da Black Sabbath, Portishead e Cocteau Twins… Siamo da quelle parti.


L’opener Partida parte aggressiva, grazie alle chitarre di Y e R (ecco, ci siamo…) ma è sicuramente la voce della Andrade a catturare l’attenzione: sensuale, seduttiva e incantevole; ricorda a momenti Beth Gibbons o Shirley Manson, ma con in più il colore ed il calore della lingua portoghese.
Proseguendo nell’ascolto di Semente, appare chiaro che il punto di forza del gruppo è proprio la voce di Patricia Andrade, ricca di ammirevole personalità e versatilità, capace di sottolineare di volta in volta le atmosfere dei vari brani, oscillando con maestria tra le tonalità più liquide e luttuose e quelle più tipicamente doom ed aggressive.
La title-track è puro trip-hop, ma ammantato di un’oscurità sconosciuta agli eroi britannici dell’epoca d’oro di questo genere; mentre la successiva Reliquia è sferzata da riffs sludge che lasciano comunque trapelare influenze ambient e shoegaze.
A Visita si lascia cullare da dolcissimi arpeggi di chitarra e loops elettronici fascinosi. La conclusiva Fragmento è forse la più imponente del disco: innervata da un riff tipicamente sabbathiano e ripetuto all’infinito…
Una sorpresa davvero, questi Sinistro, e a questo punto mi aspetto un prosieguo di carriera all’altezza di questo Semente.
Rivelazione dell’anno, niente di meno.

Edvard von Doom

ESBEN AND THE WITCH - Older Terrors
(CD Season Of Mist)


Giunti oggi al quarto lavoro sulla lunga distanza, non considerando lo split con i Thought Forms, gli inglesi Esben And The Witch confermano quanto di buono pubblicato in precedenza. Rachel Davies, bassista e cantante, ed i suoi sodali mantengono inalterate le loro peculiarità, in quello che loro stessi definiscono nightmare pop. Si tratta, più precisamente, di un suono darkwave, atmosferico, con pennellate di post-metal e di black, i cui punti cardinali si possono rintracciare tra The Cure, Myrkur, Nebelung, Gathering (quelli di Mandylion) e, perchè no, PJ Harvey.
Older Terror contiene quattro brani, per un totale di oltre 46 minuti, il che ci porta ad una prima considerazione: gli Esben And The Witch hanno un problema ad editare le loro canzoni, sono inevitabilmente tutte troppo lunghe ed al loro interno non succedono così tante cose da giustificarne la durata. Eppure. Eppure, miracolosamente, il gioco funziona a perfezione e si rivela nettamente a favore della band. L’iniziale Sylvan è una lenta, atmosferica litania dove la strumentazione è scarna e quasi sullo sfondo, mentre l’ipnotica voce di Rachel, sognante e ieratica ci ammalia come una sirena. E la lunghezza del brano diventa quasi troppo breve, incredibile se si pensa che il primo sussulto chitarristico arriva al minuto 9:30!
Le altre canzoni sono in fondo variazioni sullo stesso tema principale, con la voce della Davies sempre sugli scudi, che naviga su un mare di riffs jangly post-rock. Marking The Heart Of The Serpent ha un’atmosfera più jazzata e movimentata, mentre The Wolf’s Sun propone un approccio più rock’n’roll (se così si può dire) dove la voce della Davies si staglia su di un groove intenso e di grande effetto.
La chiusura del disco è appannaggio di The Reverist, la mia preferita, con il suo mood fantasmatico e inquietante e i lamenti eterei e incantatori della Davies: un brano difficile da descrivere ma facile da amare al primo ascolto.
Il gruppo è davvero fantastico nel riuscire a rendere sempre interessante e sorprendente la propria proposta musicale, in fondo minimale e diluita per il minutaggio dei brani, e molto di questo lo si deve alla voce di Rachel Davies; ma anche le coloriture autunnali del suono della chitarra e il drumming spartano e “incombente” contribuiscono in modo sostanziale al risultato finale.
Insomma, gli Esben And The Witch sono un piccolo miracolo, una delizia sonora che affascinerà chi avrà la voglia di ascoltarli con attenzione.

Alla strega è riuscito un altro incantesimo, non lasciatevelo sfuggire.

Edvard von Doom

domenica 6 novembre 2016

WOLF PEOPLE - Ruins
(CD Jagjaguwar)


I WOLF PEOPLE sono un moderno e poliedrico gruppo rock, perfetto specchio della nostra epoca.
Sono inglesi, esistono dal 2010 e nell’arco di tre album (questo Ruins è il quarto) sono riusciti a definire in maniera impeccabile una formula rock che, come un prezioso diamante, è caratterizzata da molteplici ed interessanti sfaccettature.
Anche rispetto al già centrato e maturo Fain, del 2013, sono cresciuti in maniera esponenziale in tutte le direzioni.
A prevalere su tutto è sempre e comunque la solida matrice rock: tutte le altre influenze sono perfettamente amalgamate in essa.
L’album è composto da dodici episodi che mettono in evidenza la loro bravura nel prendere dal passato, sia esso il folk inglese che faceva riferimento ai FAIRPORT CONVENTION (come avviene nella bucolica meraviglia di Crumbling Dais), oppure il muro elettrico sabbathiano completamente personalizzato (negli immondi ritmi cadenzati di Night Witch) o la tradizione classica orientale paventata nei tre episodi di Kingfisher  (una specie di mantra aperti su orizzonti di infinita spiritualità) ed inserirlo perfettamente in una soluzione che spesso comprende in maniera coesa tutte queste influenze attualizzate ad oggi (Rhine Sagas, Not Me Sir, Salts Mill).
I WOLF PEOPLE sono una band dei nostri tempi, con tutte le urgenze che li contraddistinguono ed anche con una giovane mentalità (anche se giovani loro, per la verità, non lo sono più) aperta nell’inglobare ed assimilare influenze delle più disparate.
E’ una band che davvero può mettere d’accordo tutti gli amanti del rock in generale.
Di quante bands attuali si può dire questo? Sono davvero speciali, credetemi.
Non si pongono limiti ma tutte le nuove influenze vengono assorbite dalla complessa costruzione dei loro brani che sono sempre al centro di tutto e risultano sempre molto fruibili anche dal punto di vista melodico: lo stesso si può dire delle bellissime ed uniche armonie vocali a più voci, sempre in risalto e curate in ogni dettaglio.
Difficile quindi, anche volendolo fare, dare un’etichetta alla loro musica, fluida e sfuggente.
Moderno rock è indubbiamente l’unica etichetta possibile e pertanto Ruins è un disco consigliato indiscriminatamente a tutti gli amanti della musica.

Un disco importante, certamente uno dei migliori sentiti quest’anno.

Reverberend

BO RAMSEY - Wildwood Calling
(CD Lustre Records)


La musica contenuta in Wildwood Calling  è autentico cibo per l’anima.
Non conosco bene BO RAMSEY; l’ho conosciuto tramite i THE PINES, il progetto dell’originale interpretazione delle radici di due suoi figli.
Mi sono avvicinato a questo disco per la cover, semplice e splendida al tempo stesso.
Proprio come piace a me.
BO RAMSEY è stato largamente influenzato dal rockabilly e dal suono della mitica Sun Records (di SAM PHILLIPS) negli anni cinquanta ed è stato premiato e riconosciuto con diversi riconoscimenti ufficiali durante la sua lunghissima carriera.
Da lungo tempo si è ritirato nella natia Eastern Iowa nella sua fattoria, a contattto con la sua terra, la terra della sua musica, della sua vita.
La musica è la sua vita e lui è percorso letteralmente, oggi come allora come sempre, dal blues.
Dal dolore, dall’amore, due entità inseparabili.
Nel momento in cui stavo per accingermi all’ascolto di questo disco ho aperto la spartana busta di carta nella quale è contenuto ed ho notato che all’interno c’è un foglio: da una parte c’è una foto, in bianco e nero, un po’ sfocata (presumibilmente della fattoria di BO) realizzata da PIETA BROWN.
Beh, i contorni anneriti di questa foto e la sagoma della fattoria, nera sullo sfondo, contengono tutta la musica di questo disco: la perfetta trasposizione del blues!
Già, l’attaccamento alla sua terra è totale; del resto BO ha preferito allontanarsi dal resto del mondo, confuso ed infelice oramai costretto lentamente verso un ineluttabile declino.
Si inizia con Fly On (Part 2) deidcata a Prince Rogers Nelson (in arte PRINCE) ed subito magia pura, come fluttuare con dolcezza e profondità sull’essenza del blues.
Il suono della sua chitarra riverberata e poco altro che ci ammalia ed incanta con poche perfette note.
L’intensità emotiva di un disco come questo, un disco che non deve dimostrare niente a nessuno e che presumibilmente verrà velocemente inghiottito da tutto il rumore che lo circonda.
Un disco silenzioso, dove il suono è sempre misurato e scheletrico, dove l’eco del grande nulla, degli spazi immobili ed immensi del ventre americano è una costante immancabile.
La natura e la terra sono anch’esse due costanti nella mente di BO e, quindi, nella sua musica.
La fusione di questi tre elementi è totale ed è forse questa spontaneità ed onestà fuori da ogni perversa logica del profitto a fare la differenza.
E’ difficile da spiegare a parole ma la sensazione durante l’ascolto è di appagamento ed abbandono allo stesso tempo.
Sentite Out There ed è come essere BO che guarda dalla finestra della sua fattoria: impagabile.
Le emozioni, quando sono sincere, possono arrivare ovunque come quando ci si innamora: l’assoluto.
Solo l’attento ascolto rende giustizia alla grandezza di questi suoni che non cambieranno il corso della storia, questo è certo, ma lasceranno certamente un segno indelebile nei nostri cuori.
Eppure è solo BLUES…

Reverberend

Sorry, no link