Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

domenica 2 aprile 2017

DODECAHEDRON - Kwintessens
(CD Season Of Mist)


Sin dall’antichità, filosofi come Platone hanno dato grande importanza alla musica. La ritenevano in grado di influenzare notevolmente le emozioni umane: gioia, abbandono, tristezza e, come sapevano anche i grandi condottieri, sensazioni di trionfo e vittoria. Già, ma cosa avrebbe detto Platone di una musica che fa vomitare? Una musica che ti riduce la lingua in cenere, che risucchia ogni calore dalla stanza dove ti trovi ad ascoltarla? Una musica che non è triste o arrabbiata; semplicemente, irreprensibilmente malvagia?
Gli olandesi Dodecahedron fanno esattamente questo. Il loro debutto omonimo del 2012 si apriva con il brano Allfather, che riascoltato oggi mi provoca ancora una sensazione di malessere fisico.
Kwintessens non inizia allo stesso modo, i primi due brani sono quasi accettabili se paragonati alla gelida magnificenza di Hexahedron, in cui appaiono i primi sintomi di terrore fisico, grazie ai riffs delle chitarre che ondeggiano mostruosamente e fanno mancare l’aria. Un brano disturbante ma immenso, indimenticabile. Una potenza devastante, un attacco d’ansia di dimensioni immani; la struttura è circolare, si richiude su se stessa. Mandato in loop potrebbe fare evaporare una mente umana… L’album procede in modo sempre più alienante: Tetrahedron ricorda qualcosa dei Deathspell Omega, ma i suoni sono più brillanti e al contempo più densi. Dodecahedron ha un’atmosfera sospesa tra il paradisiaco e l’infernale, con breaks di puro harsh noise. L’enigmatica Finale (che un vero finale non è) esemplifica quello che si potrebbe definire la versione black metal della musique concrète: un collage di suoni ronzanti, atmosfere celestiali e voci distorte che introducono il vero finale: Icosahedron.
Impressiona l’utilizzo che i Dodecahedron fanno dello studio di registrazione, utilizzato come un vero e proprio strumento al pari degli altri. L’album ha un suono vitreo, tagliente, avvolgente come una spira mortale. Grazie a ciò, il gruppo si distacca notevolmente (ed in avanti, ovvio) rispetto ad altri terroristi sonori come gli Ulcerate.
Se mi passate il paragone, la loro musica è come quella di Gustav Mahler, pone una quantità notevole di domande senza dare risposte. Al momento non esiste nessuno in grado di emularli a questi livelli. Il guanto di sfida è stato lanciato, vedremo chi avrà il coraggio di raccoglierlo.

Disco elitario, solo per iniziati.

Edvard von Doom

lunedì 6 febbraio 2017

Kairon; IRSE! - Ruination
(CD/LP Svart Records)


Per una volta possiamo dimenticarci delle regole grammaticali e scrivere il loro nome come desiderano, perchè i Kairon; IRSE! sono un gruppo spettacolare e gli perdoniamo volentieri questo vezzo. Finlandesi di Seinäjoki, sono con questo Ruination al secondo lavoro fisico dopo il precedente Ujubasajuba del 2014 (un altro, l’esordio, è in download gratuito sul loro sito bandcamp) e si tratta di un capolavoro, il primo di quest’anno appena iniziato.
In passato in molti si sono cimentati nell’impresa di scrivere musica sperimentale ma facilmente fruibile, alcuni ci sono riusciti, altri hanno fallito, i K;I! appartengono alla prima categoria senza dubbio alcuno. La cosa inspiegabile è che cotanto genio sia rimasto appannaggio di pochi fortunati. Per fortuna ci ha pensato Juho Vanhanen, frontman degli Oranssi Pazuzu, a portarli alla Svart e a produrre questa meraviglia. Si appunti una medaglia al valore!
Sin dagli inizi, i K;I! hanno mescolato le varie influenze in una fusione di space rock e shoegaze (prendete il termine con le pinze) ma in Ruination si evidenziano spinte prog rock più accentuate che in passato. Il disco è costruito intorno a melodie delicate, catchy, e ondeggia in continuazione, fluttua in un meraviglioso viaggio cosmico di estatica bellezza. Ho scritto prima di musica sperimentale e cavolo, questa lo è! Non segue nessuna regola strofa-ritornello-strofa, è assolutamente libera, direi psichedelica nella sua concezione.
Una musica fatta di mercurio: sta perfettamente nella forma che la contiene ma al proprio interno è vivissima, spumeggiante, inafferrabile. Sempre sorprendente. Per dire un’eresia: avete presente gli errori di Thelonious Monk? Ecco, in alcuni momenti viene da esclamare: questo cos’è!? E subito dopo la forma si ricompone immediatamente in un unicum perfetto. Pura alchimia sonora.


Ruination suona come i Jethro Tull in acido che si credono dei Queens Of The Stone Age in fissa da Beatles, con il gusto pop sbilenco degli Yo La Tengo che si intrufola tra le note in un saliscendi di emozioni incredibili.
Per esempio: ad onta dei complessivi 26 minuti di durata, l’iniziale Sinister Waters (divisa in due parti) non contempla cali di attenzione per l’ascoltatore e si rimane estasiati dalle incredibili armonie vocali del gruppo (Dmitry Melet, basso, voce e violino; Johannes Kohal, batteria; Lasse Luhta, chitarra e Niko Lehdontie, chitarre e tastiere).
Le differenze tra il disco precedente e questo stanno nella produzione e nella qualità dei suoni, più che nella qualità dei brani: sono da considerarsi entrambi imprescindibili. Preferire l’uno o l’altro è questione di sfumature.
La costruzione dei Kairon; IRSE! ha il dono di un equilibrio perfetto in tutte le sue parti, la facilità dell’ascolto non mina la complessità dei brani e anzi la esalta. Quasi da non crederci! Non so cosa riserverà loro il futuro, io gli auguro di mantenere questa indipendenza il più a lungo possibile e di continuare a deliziarci con altre meraviglie sonore di tale fattura.

Purissimo cibo per la mente, disco indispensabile.


Edvard von Doom

LE' BETRE - Melas
(DL Bandcamp)


Questo disco è stato inciso nel 2014 e solo oggi è stato reso disponibile in rete: solo in rete per il momento!
Stiamo parlando di un disco ECCEZIONALE: i LE’ BETRE arrivano dalla Svezia e sono une creatura che si muove nei territori troppo battuti di certo hard-stoner-blues.
Molti di voi passeranno oltre nauseati: mi rendo conto che non se ne può più di certi generi dove le bands tendono a essere tutte molto simili, più o meno competenti più o meno capaci ma tant’è.
Beh i LE’ BETRE sono davvero bravissimi, con brani eccellenti, un cantante carismatico e con un’estensione vocale come pochi, poi hanno uno splendido organo (valvolare, Hammond B3) che rende il suono ancora più pieno.
Provate a immaginare, per rimanere ai giorni nostri, a un incrocio tra i migliori GRAVEYARD (che purtroppo si sono sciolti) e i WITCHCRAFT. Siamo davvero a questi livelli e scusate se è poco.
L’impianto è del più classico hard-stoner ma sono i brani a fare davvero la differenza: a partire dalla splendida Gowns & Crowns e proseguendo con Sir Meadows e arrivando alla magnifica Shades Of Grey con forti inflessioni soul vocali alla GRAVEYARD (ah, sento già la nostalgia di una band così favolosa come loro).
Certo, niente di nuovo sotto il sole ma non è questo il punto.
Il focus di tutto sono sempre i brani: in questo caso compiuti, quadrati senza alcuna sbavatura e suonati come Dio comanda.
E’ davvero pazzesco pensare che un disco di siffatte proporzioni sia potuto rimanere in un cassetto per anni e ancora non è stato pubblicato da nessuno, sperando che oggi esistano ancora i LE’ BETRE.
Prendiamo un brano come la devastante Snake Eyes, cadenzata e possente con un drumming tribale e la voce roca e incisiva come nei favolosi power trio che hanno fatto la storia del blues più puro e duro.
Semplici e perfetti.
Viene da pensare che a questi livelli, in questo genere, ci sono solo bands svedesi: hanno un qualcosa in più, sembra proprio così.
Billys Moon è una ballata da pelle d’oca: la performance vocale è una delle migliori degli ultimi anni e il suono misurato la sostiene sino alle porte dell’olimpo, poche note di chitarra, secche e decise, il basso con una vibrazione lenta e costante e la batteria che con tocchi potenti e calibrati permette al brano di decollare letteralmente con crescendo di una bellezza ultra terrena. E’ davvero una gioia sentire brani come questo.
Ed è proprio questa gioia che ci continua a spingere a cercare oltre sapendo che un piccolo grande disco come questo, oggi, si può nascondere ovunque.
Ma non è finita, credetemi, perché con Heel Fire la magia si ripete e il crescendo ci porta a lambire il cielo.
ROCK’N’ROLL IS HERE TO STAY!!

STAY TUNED…

Reverberend

KANOI - Mountains Of The Sun
(DL Bandcamp)


Siamo a Vienna, questa volta, dove un folle visionario (one man band, fa tutto da solo) dalle pareti multi colorate della sua camera magica crea la sua trasmissione sonora sotto forma di frequenze psichedeliche ad alto tasso di allucinogeni (il mantra, tra arcobaleno e anfetamine, di Silhouette giusto per capire di che pasta è fatto il ragazzo).
C’è davvero tutto nella sua distorta mente: l’elettricità della chitarra in volo libero verso altre galassie, la voce lontana e trasognata, un organo o meglio la sua eco e una vibrazione primordiale ritmica e ondulatoria che rende il tutto ipnotico e irresistibile.
Sono registrazioni casalinghe quelle di Mountains Of The Sun, non molto rifinite e parte del fascino arriva direttamente da questo magico senso di incompiutezza derivato da viaggi astrali senza inizio e senza fine, liberi nello spazio.
Golden Glow, I’m Gone (I’m Gone) e Mountains Of The Sun arrivano direttamente dai campi di fragole di beatlesiana memoria con JIMY HENDRIX che masturba letteralmente la chitarra in bassa fedeltà mentre una base acustica tiene unito il tutto magistralmente; poi il ritmo rallenta e l’orologio gira al contrario.
Gente, che viaggio lisergico.
E’ impossibile non soffermarsi a pensare a questo austriaco e alla sua mente realmente aperta e disturbata.
Ci sono squarci acustici e mantrici dove l’idillio di melodie e serenità occupano tutto l’orizzonte, come nella finale (To The Girl Who Dreamt) Silent Dream ma più spesso è la caduta libera in territori che solo la mente sotto l’effetto di pregiate sostanze stupefacenti può rivelare.
Abbiamo bisogno assoluto di tutto questo, un mondo parallelo all’interno del mondo reale: Alice nel paese delle meraviglie.

FREE YOUR MIND… AND YOUR ASS WILL FOLLOW…

Reverberend

sabato 28 gennaio 2017

TVSK - Learn To Die
(DL Bandcamp)


I TVSK sono un duo di outsiders che approdano in uno sconosciuto territorio dalle forme DOOM arrivando da un’area trasversalmente POST-PUNK.
Una cosa diversa, letteralmente!
Dalla periferia di un sobborgo come Alameda (California), situata su di una piccola isola nella baia di San Francisco (proprio come la nota prigione di Alkatraz), con un tasso di delinquenza da allarme rosso prende forma un monotono e paranoico mantra doom-rock: una voce straniante e poche reiterate note di basso, pulsanti e distanti, ci introducono con l’aggiunta di una sepolcrale e scheletrica base elettrica alla progressione ipnotica di un monumentale e roccioso riff di basso, completamente deformato, che traspone in forma sonora il clima secco e torrido del loro luogo di appartenenza con una voce sgraziata e declamatoria che srotola il testo dell’iniziale Blood Sun.
E’ la carcassa di ciò che è rimasto del rock catapultato nell’era moderna: schemi fissi, ritmica robotica e marziale su di una struttura che definire scheletrica è puro eufemismo.
La ripetizione come totale negazione di desiderio.
Il trascinamento di tutto questo è estremamente coinvolgente e riconfigura ciò che oggi appare definito in ogni sua forma e categoria: il ROCK.
Iron Mountain, il secondo lungo brano ripete lo schema con poche note di basso reiterate: calore asfissiante, rocce di acciaio e sole rosso sangue e l’immobilità di una società allo sbando.
Nessun obiettivo, nessuno scopo ma immaginazione e speranza ancora presenti nell’ondulatorio incedere dei minuti affogati in pura vibrazione elettrica anestetizzante: spolpando il cadavere del ROCK così come lo intendiamo.
Un breve bordone di confusa meditazione in Interlude dove le intermittenti linee ritmiche non portano da nessuna parte: pura apatìa che sfuma nel silenzio, nel nulla.
La finale War Caravan è assolutamente apocalittica: una lenta discesa verso la completa dissoluzione sonora sotto forma di un desertico mantra (la voce salmodiante) magico e ripetitivo come il ciclo dell’intera esistenza terrena.
Una lieve tessitura di basso si adagia su un sottile bordone sonoro e la batteria lenta e metronomica introduce l’assoluto dominio elettrico, ancora una volta, di mostruose vibrazioni che definiscono il cieco tunnel verso l’oblìo.
Uno specchio dei tempi moderni: l’assenza di prospettiva e la spasmodica ricerca di qualcosa che non ha forma.
Direttamente dal grande nulla un messaggio spietato e realistico di ciò che ci attende.

Un piccolo grande capolavoro.

Reverberend

HOCHEN - Simulation
(DL Bandcamp)


Incredibile, ma in rete oggi è possibile trovare degli autentici oggetti volanti non identificati: HOCHEN, one man band di STU LEITER risponde perfettamente a questa oscura categoria.
 Già dalla cover di Simulation, una strana e obliqua foto virata in rosa e azzurro di un tetto e una pianta si intuisce che si è in presenza di una strana cosa.
Il luogo di provenienza è Phoenix (Arizona), ai confini del mondo, ai confini della realtà.
Sotto l’immenso e immutabile sole rosso la visionaria mente di HOCHEN ha formato un lento percorso di invidiabile moderno rock trasversale.
Trenches inizia come una divertente e danzereccia canzone di wave anni ottanta con una voce che rimanda direttamente a una grandissima band di nome WALL OF VOODOO ma poi entra la chitarra con un riff elettrico e definitivo che rimette in gioco tutto e sposta l’asse verso uno stoner desertico e ipnotico intervallato con giocose pause di synth-pop.
Una cosa strana, appunto.
Si resta piacevolmente disorientati ed è solo l’inizio.
Il basso cadenzato e la liquida melodia di chitarra aprono Got a Date con la voce distante che racconta storie senza senso: la chitarra taglia in due il brano con un devastante riff e la batteria prende ritmo e fonde il tutto in salsa post-punk di pregevole fattura (ipotizzo un incrocio tra la Ralph e la Subterranean Records, gloriose etichette non allineate che hanno reso indimenticabile il clima degli anni ottanta).
La vita degli enormi scarafaggi dispersi nel grande nulla viene descritta con dovizia di particolari nella tentacolare Bugs che con una ondulata chitarra slide e la nasale e monotona voce ci spinge direttamente nel deserto e nella sua eterna circolarità temporale.
Un suono magnetico che richiama in egual misura i migliori THIN WHITE ROPE (quelli di Spanish Cave), i WALL OF VOODOO (quelli di Dark Continent) e le cose meno estreme dei CHROME di HELIOS CREED (quelli di 3rd From The Sun).
Difficilmente collocabile in quanto a struttura sonora, Simulation si muove agilmente nella terra di nessuno, difficilmente collocabile anche temporalmente perché sebbene molte cose rimandino direttamente a certi anni ottanta il suono deforme e visionario di HOCHEN è indiscutibilmente figlio dei giorni nostri con tutte le tensioni e contraddizioni che ne conseguono.
L’arpeggio cristallino e la sbilenca cantilena di Dot on a Speck si immergono nel torrido rock duro e claustrofobico dalla forte impronta melodica che sembra provenire da un’altra dimensione.
La lenta e elettrica narcosi di Simulation segue le dune del deserto nel loro continuo rincorrersi alternando furiosi e cadenzati riffs elettrici a melodie di facile memorizzazione.
Credetemi, un disco “volante” caduto sulla terra: impossibile non innamorarsi dopo lo spaesamento iniziale.

Heavy rotation assicurata.

Reverberend

giovedì 26 gennaio 2017

KLIMT 1918 – Sentimentale / Jugend
(2CD Prophecy Productions)


Sono passati otto anni buoni dal precedente lavoro dei romani Klimt 1918, e il titolo che portava (Just In Case We’ll Never Meet Again) cominciava ad essere sinistramente profetico. Per nostra fortuna la band è ritornata tra noi e con un doppio disco, oltretutto. Marco Soellner, mastermind dei Klimt 1918, ha recentemente spiegato che l’inattività del gruppo è stata una conseguenza di varie vicissitudini vissute dai vari componenti negli ultimi anni e molte di queste storie sono finite nei brani di Sentimentale / Jugend.
Dopo tre albums di elevata qualità (ed un mini cd autoprodotto) i Klimt 1918 sono riusciti nell’impresa di superarsi e di regalarci il loro apice compositivo. Erroneamente inseriti nel calderone metal, probabilmente a causa del fatto che hanno sempre inciso per labels che trattano in primis quel genere, i romani sono invece i più importanti esponenti di un suono che ha le proprie radici nel post punk degli anni ’80. E lo sono a livello internazionale: nessuno ha la loro credibilità e la loro creatività in questa materia.
Disponibile in doppio cd con formato hard book che esalta il meraviglioso artwork di Paolo Soellner ed in download digitale (ma con un brano in meno), Sentimentale / Jugend è un vero monumento sonoro davanti al quale è difficile non rimanere estasiati.
L’aria che si respira è quella a cui il gruppo ci aveva già abituato: la Berlino degli anni Settanta, la sensazione di accerchiamento e di una vita stretta da confini invalicabili, il grigiore di esistenze affogate dalla paura e dalla guerra fredda. Il titolo del disco è ispirato ad un progetto musicale che vedeva coinvolti Alexander Hacke (futuro Einsturzende Neubauten) e Christiane Vera Fleischerinow, l’autrice de Noi, I Ragazzi dello Zoo di Berlino.
Il primo cd, Sentimentale, ci culla in un magma sonoro carezzevole e sfuocato, l’iniziale Montecristo è emblematica di tutto il disco, nel suo incedere melanconico e riverberato e ci solleva fino al cielo nel suo crescendo emozionale. Lo stesso vale per La Notte, cantata in italiano, e Belvedere, le cui grigie melodie sono capaci di trasmettere sensazioni di vertigine e meraviglia. Certo, possiamo riconoscere le fonti alle quali il suono dei Klimt 1918 si abbevera: Banshees, Cocteau Twins, Jesus And Mary Chain, il dark di Sisters Of Mercy e Red Lorry Yellow Lorry, ma la personalità del gruppo ed il risultato sono ampiamente al di sopra della somma delle parti. Lo dimostra la cover di Take My Breath Away (si, proprio quella di Top Gun!) che acquista uno spessore ed un’atmosfera degne di Bowie, più che di Moroder…
Ottima la scelta produttiva di lasciare il cantato “dentro” il suono e non “davanti”: in questo modo i brani acquistano una luce riverberata ed avvolgente, come succedeva negli anni Ottanta nei capolavori indimenticati del post punk più cupo.


Il secondo cd, Jugend, inizia con la meravigliosa Nostalghia che funziona un po’ come trait d’union tra le due parti e poi si diversifica con suoni più secchi e diretti. Sant’Angelo (The Sound & The Fury), Unemployed & Dreamrunner e The Hunger Strike (dove compaiono anche i fiati ad impreziosire il tutto) sono piene di quella sensibilità pop che ha fatto la fortuna di gente come gli U2, ma sempre immerse in una liquida malinconia che fa accapponare la pelle ed esplodere di gioia il cuore. Si arriva così a Resig/Nation, forse il brano più importante del disco, di una bellezza abbacinante e a Juvenile che inietta nelle vene dei Klimt 1918 una splendida sostanza sixties, ampliando ancora il range sonoro della band.
Ultima citazione per la bellissima (avete notato quante volte ho scritto di bellezza, in riferimento a questo disco? Lo merita, eccome.) Stupenda e Miserabile Città che mette in musica le parole di Pier Paolo Pasolini (sono tratte da Il Pianto della Scavatrice): un omaggio elettrico quasi sacrale alla città di Roma, un brano da brividi, credetemi, pura emozione.
Al termine dell’ascolto si rimane come svuotati, esterrefatti e emozionati come dopo un’impresa quasi fatale. Unico rimedio: ascoltarlo ancora e ancora. Lo ripeto: Sentimentale / Jugend è un lavoro di caratura superiore, un inarrivabile Olimpo dove rifugiarsi dalle intemperie del mondo. 
Mi erano mancati molto, ora lo so.
Mi auguro solo di non dover aspettare altri otto anni per un altro disco dei Klimt 1918.

Edvard von Doom

CANTIQUE LÉPREUX – Cendres Célestes
(CD Eisenwald Tonschmiede)


Una delle poche cose positive dell’anno da poco trapassato è stata la conferma dell’altissima qualità della scena black metal del Québéc, ovvero, per dirla con parole loro, del Métal Noir Québécois. Oltre alle notevoli conferme dei veterani Forteresse, Sorcier Des Glaces e Neige Et Noirceur, va assolutamente segnalato questo lavoro di esordio dei Cantique Lépreux, per i tipi della tedesca Eisenwald Tonschmiede (già sugli scudi per acts del calibro di Uada, Fluisteraas e Grimoire, tra gli altri). Composto da Blanc Feu a chitarra e voce, Cadavre alla batteria e Matrak Tveskaeg al basso, tutti con precedenti esperienze in altre bands del Québéc; il gruppo ci regala davvero una pietra miliare del genere.
Cendres Célestes colpisce fin dalla copertina, avvolta in un glaciale colore bianco che inevitabilmente rimanda alle nevi ed ai ghiacci del loro paese, con un dipinto inquietante che rappresenta al meglio la musica contenuta all’interno: una luminescente colonna biancastra si erge tra gli alberi di un’immota ed impenetrabile foresta, avvolta da misteriose particelle sospese nell’aria notturna (le ceneri celesti?).
Spasmodicamente atteso dai fan, come il sottoscritto, che hanno divorato le scarne anticipazioni che lo hanno preceduto, Cendres Célestes è un capolavoro. “Oblitérés par la blancheur / il n’est pas certain / que nous renaissons”, recitano nella fatalista Transis, e tutto il disco è percorso da un’atmosfera cupa e disperata; la voce rabbiosa di Blanc Feu e il colore del suono dei Cantique Lépreux trascinano in un gorgo riverberante che porta dritti all’apocalisse. Una delle peculiarità più interessanti del gruppo è quella di riuscire ad essere feroci ed aggressivi, ma contemporaneamente malinconici ed evocativi.
I riff sono maestosi e possenti e si insinuano subdolamente nelle nostre menti per non uscirne più, come nella stupenda La Meute, ma tutto l’insieme è (se mi passate l’azzardo) argenteo e spettrale insieme. Notevole il lavoro della sezione ritmica, che non si appoggia pedissequamente al classico blast-beat ma riesce comunque ad essere violenta, trascinante e fornisce un supporto magnifico al guitar work di Blanc Feu: a tratti quasi etereo nella sua grazia e subito dopo agghiacciante e gelido.
Ogni brano di Cendres Célestes merita la vostra attenzione (la sublime Tourments des Limbes Glacials, la nerissima Le Mangeur d’Os) perchè i Cantique Lépreux, nonostante le evidenti influenze che arrivano dalle bands fondamentali degli anni ’90, hanno una cifra stilistica personale affascinante e potenzialmente in grado di dare risultati clamorosi.
Al momento è disponibile solo nel formato cd (la tiratura in cassetta è già esaurita da tempo), ma si parla di una versione in vinile to be announced.
Non vedo l’ora di metterci le mani sopra. Da non perdere.

Edvard von Doom

domenica 15 gennaio 2017

EPHEMERNIA - ...And In The Morning There Were None
(DL autoproduzione)


Ogni inizio d’anno mi domando sempre quale sarà il primo disco che ascolterò. Non in senso generale, intendo un disco che rechi la data del nuovo anno in copertina. Di chi sarà? Di che genere? Allegro o triste? Bello o brutto? Una volta quest’ultimo dilemma non si sarebbe posto: un disco dovevo comprarlo, mica ne sceglievo uno brutto. Ma questi sono tempi digitali, ed oggi un disco puoi sentirlo senza acquistarlo, e gli ascolti deludenti e (per forza) superficiali, sono aumentati a dismisura. Però, questa sorta di imprinting che il primo disco dell’anno appone ai successivi, per me, ha ancora la sua importanza. Un po’ come la partenza condiziona il viaggio a venire.
Il 2017 è iniziato con questo lavoro pubblicato il 5 gennaio, disponibile solo in digitale (segno dei tempi, appunto) degli Ephemernia; finlandesi di Espoo e qui al loro esordio assoluto.
…And In The Morning There Were None è un ottimo auspicio per il nuovo anno (ehm), nel senso che mi ha molto incuriosito e stimolato, e se il buon giorno si vede dal mattino…
Niente di nuovo sotto il Cielo, intendiamoci, e certo non privo dei difetti direi classici di un gruppo esordiente. Però, pur con le ingenuità e le necessarie messe a punto da sottolineare, è un lavoro a suo modo coraggioso e aperto alle contaminazioni. Molto interessante.
The Humongous Vastness Of Mind è una evocativa e triste introduzione per la successiva Somewhere Between Euphoria And Apathy che mostra invece il lato più aggressivo del gruppo, con un andamento death/doom rallentato e oppressivo, con tanto di growl. Le fonti di ispirazione sono innumerevoli, certo, e si sentono: Katatonia in primis e anche gli Opeth più scuri, con una dose abbondante di spleen scandinavo. Le successive Best Memories, Heaviest Tears e Illusions (divisa in due sezioni) cambiano le carte in tavola; le atmosfere si fanno più progressive, in alcuni momenti sembra di sentire un gruppo apocalyptic folk che ha preso una sbandata doom, e ci si ritrova negli anni ’80 del post punk più dark.
August Burns To Dusk prosegue nel solco delle precedenti, affinando l’amalgama dei suoni che portano alla conclusiva, e davvero bellissima, The Last Reminiscence Of Life: 10 minuti e mezzo di meraviglia. Come dei Fields Of The Nephilim sciolti in un brumoso liquido death/doom/post-rock.

Insomma, di idee gli Ephemernia ne hanno parecchie. A livello di songwriting devono crescere ancora, ovvio, e necessitano sicuramente di maggiore esperienza e migliore produzione; ma se svilupperanno con creatività le buonissime idee che già si trovano in questo lavoro, faranno ottime cose. Per intanto mi godo il paradosso che un disco assolutamente triste come questo sia un inizio felice per il 2017. Strange things are always happening…

Edvard von Doom

mercoledì 4 gennaio 2017

MOTHER ISLAND - Wet Moon
(CD Go Down Records)


Non ho ascoltato il debutto di questa splendida band vicentina e sono rimasto meravigliato da questo secondo sophomore Wet Moon.
Innanzitutto il suono cercato e trovato da Matt Bordin di Squadra Omega negli studi Outside/Inside è stupefacente e avvolto da un incredibile mantello analogico caldo e perfetto.
La voce soul-jazz di Anita Formilan colpisce sin dalle prime battute di To The Wet Moon unitamente ai riverberi eccellenti delle chitarre che dal DUANE EDDY di album come Twistin’ ‘n’ Twanging passano per tutte le bands di surf strumentale anni sessanta sino alla riattualizzazione di CHRIS ISAAK (dei primi due albums) sino a certe cose di MARK RIBOT e BILL FRISELL.
Un suono molto psichedelico ma morbido e a tratti doorsiano (lo splendido organo di Twentynine Palms) con la voce unica e molto old-style (Billie Holyday per la similitudine di inflessione) che ipnotizza letteralmente.
Ci si avvicina al jazz meno canonico con voce recitante nel delirio in slow-motion di La Danse Macabre, brano a sé stante all’interno di un album disteso mirabilmente su di un velluto psichedelico melodico e originale al tempo stesso.
Non sono certo innovativi questi MOTHER ISLAND ma sono difficili da affiancare ad altre bands perché riescono a far convivere all’interno di tutti i loro brani spiriti ed atmosfere differenti con un equilibrio invidiabile.
Per certi versi mi ricordano certe cose di bands di psychedelia barocca come ILL WIND (il loro album Flashes) o THE BAROQUES (quelli di Purple Days) ma poi ci sono gli inarrivabili e insistiti riverberi di chitarra che accompagnano il tutto in una dimensione differente e poi la voce, e che voce, affascinante e sexy e perfettamente integrata in questa formula vincente.
In brani come Normal Love Eastern Memories si intravede anche il fantasma di Morricone, giusto dietro l’angolo, come la classica ciliegina sulla torta.
Da pelle d’oca la ballata dark-bluesy di The Heap lenta e voodoo che crea un pathos sinistro e misterico.
In un periodo dove pressoché chiunque violenta il suono o cerca di brutalizzare qualsiasi cosa i MOTHER ISLAND sono una voce fuori dal coro che si distinguono non solo per l’originalità di ciò che propongono ma anche per l’intrinseca qualità di ogni singolo brano.

Da sentire ripetutamente… Ancora e ancora…

Reverberend

THE COAL MEN - Pushed To The Side
(CD Vaskaleedez Records)


Non conoscevo per nulla questa band ma sapevo che l’attento magazine americano NO DEPRESSION ne aveva decantato le doti quindi ho drizzato le antenne ed eccomi qui dopo svariati ascolti a condividerne tutto il bene possibile.
I COALMEN hanno esordito con Escalator’s nel 2013 ma sinceramente è un disco che non ha niente a che fare con quello che potete trovare in questo secondo sophomore album.
Non è un brutto disco il loro esordio ma è veramente diverso e per nulla identificativo del potenziale di questi arguti musicisti. Profondamente americani.
In questo Pushed To The Side i suoni sono ridotti all’osso, più intimi e confortevoli che nel suo predecessore: ne guadagna senza dubbio la splendida voce del leader Dave Coleman, più profonda e struggente ma anche il suono sfuggente e spesso twangy delle chitarre, quasi sospese, che si appoggia in maniera magistrale su di u n delicato tessuto country-roots con inflessioni anni cinquanta e spesso in toni down tempo e seppiati.
Si parla di mini storie di vita di provincia americana vissuta come Willy Jett, Lilly Hurst, Travis; tenui ballate che si infiltrano nella tradizione roots country più pura ma con un tocco fluttuante alla Daniel Lanois, come intime confessioni a cuore aperto.
Pushed To The Side sembra proprio una jam con un CHRIS ISAAK in slow motion alla chitarra e il fantasma del più ispirato TONY JOE WHITE alla voce con la polvere del deserto che impasta a dovere le note.
Poi, a volte, è il rock più sanguigno che fa’ capolino tra una ballata e l’altra; è questo l’esempio dell’egregia The Payoff  energetica e sicura in un territorio roots perfetto e con i piedi per terra.
Certo c’è anche lo spettro dei migliori e più onirici COWBOY JUNKIES in tante atmosfere di questo Pushed To The Side ma sono diluite in un contesto più tradizionale.
In questi suoni non c’è disperazione, non si arriva mai al punto di non ritorno ma è presente molta malinconia per qualcosa che è andato storto, un qualcosa di intrinsecamente legato al territorio, all’America rurale.
Si respira l’aria di motel ai margini del deserto, di roulottes semovibili ai margini delle highways e delle strade blu, quelle meno conosciute e battute.
Il riverbero costante sembra provenire dalle magiche mani del migliore MARK RIBOT o dalle corde spacey di BILL FRISELL: la scuola è quella ma Dave Coleman ha un suo stile peculiare e melodico che non deve nulla a nessuno, che ha imparato respirando l’aria del grande nulla, dello spirito più libero dei territori americani più incontaminati e meno esposti.
Un tesoro da custodire con cura e dedizione, proprio come le accelerazioni di Speeding Like a Demon; un grezzo diamante sepolto che sembra uscito da una tomba chiusa ermeticamente negli anni cinquanta.
Già, l’America più pura, quella che ha creato il mito che non morirà mai, libero e selvaggio che continua ad alimentare le musiche della nostra più fervida immaginazione.
E noi non aspettiamo altro che imbatterci, per caso, in bands favolose come questi COALMEN che vanno e vengono come il vento che inghiottisce tutto e seppellisce anche i tesori più nascosti.
In attesa di essere riscoperti a distanza di tempo… Da ascolatre a nastro…

C’era una volta il west…

Reverberend

ARTHUR VEROCAI - Arthur Verocai
(CD Mr. Bongo Records)


HARETON SALVANINI - SP 73
(CD Mr. Bongo Records)


Dopo la fine degli anni sessanta, periodo in cui in Brasile c’è stata la rivoluzione tropicalista, con a capo CAETANO VELOSO, GAL COSTA, ANTONIO CARLOS JOBIM tra gli altri, osteggiata e repressa in ogni modo dal governo militare che era contrario ad ogni espressione creativa e dichiaratamente contro il regime la musica ha continuato a svolgere un ruolo primario nella quotidianità di un popolo oppresso e con la voglia di reagire in qualunque modo lecito a tutto questo stato di cose inaccettabili.
Il regime ha esiliato tutti gli artisti considerati non in linea con lo status quo ovvero tutti i principali esponenti di realtà nuove che cercavano attraverso i suoni innovativi di aprire gli occhi della maggioranza silenziosa.
Ci sono comunque state le eccezioni, degli outsiders, artisti liberi e fuori controllo difficilmente etichettabili quindi difficilmente attaccabili da chiunque.
A questa categoria faceva parte ARTHUR VEROCAI che si poteva, per spirito libero e fuori dagli schemi, affiancare a figure come gli americani DAVID AXELROD e CHARLES STEPNEY che ha vissuto sulla propria pelle la rivoluzione del decennio precedente e si è proiettato verso il futuro immaginando un suono differente.
Il suo album omonimo, uscito su WARNER nel 1972, riusciva nell’intento di inglobare il meglio di quanto espresso dal movimento tropicalista di rottura con il profondo groove tipico del funk al di là da venire con equilibrati arrangiamenti orchestrali e riferimenti mirati al meglio della bossanova ed alla tipica saudade brasiliana.
Compositore, arrangiatore e polistrumentista assolutamente non catalogabile ma sempre attento all’aspetto melodico riesce ancora oggi a stupire con un attento ascolto di questo suo album omonimo che contiene preziose poesie musicate con un’intensità emotiva sorprendente e attuale.
Meno noto ma appartenente alla stessa categoria senza etichetta, HARETON SALVANINI pubblicò sempre via WARNER nel 1973, il suo esordio SP 73, altro vero e proprio album senza tempo con la stertta collaborazione dell’inseparabile fratello, direttore teatrale AYRTON.
L’intensità delle sue composizioni compare immediatamente dall’iniziale, orchestrale, Eu hoje acordei com a luz do sol che con la malinconia tipica che lo contraddistingue ci introduce alla vellutata e notturna Salamandras quieta e rarefatta.
La passione per la composizione e la volontà di spingersi sempre oltre si evidenziano in Viver e Sem nome, veri manifesti della bossa più intensa e progressiva.
Incredibile lo psych-funk-jazz di Primitivo, indiavolato strumentale degno dei migliori blaxploitation movies dei settanta americani.
Come è possibile non commuoversi immersi nella dolcezza e delicatezza dell’elegante Imagem sfocata fotografia del tempo che inesorabilmente ci sfugge di mano.
Un plauso speciale e necessario alle attenzioni di etichette come la MR BONGO che setaccia territori meno noti in cerca di veri diamanti dimenticati da tutti come questi.
Due sorprese inaspettate…

Reverberend


ALBERT AYLER - Nuits De La Fondation Maeght 1970
(CD Water Records)


Sono andato a cercare nella mia sterminata collezione questo CD perché ricordavo che al contrabbasso suonava quello strapalato e indomabile sperimentatore quale era STEVE TINTWEISS.
Alla fine degli anni sessanta STEVE faceva comunella con MARTIN REV, prima che i SUICIDE (la creatura formata con ALAN VEGA, altro artista venuto dallo spazio) divenissero una nuvola che incombeva sulla grande mela marcia che era all’epoca New York.
Questo formidabile concerto alla fine del tour francese è uno degli ultimi del grande ALBERT AYLER che tornato a New York, venne trovato a fine settembre dello stesso anno (1970) privo di vita nell’East River in circostanze mai del tutto chiarite.
La fine degli anni sessanta sono stati il suo periodo più estremo e incisivo, quando si poteva vedere anche al fianco di CECIL TAYLOR altro sabotatore di standard conclamati dai puristi e sostenitore del free che più free non si può.
Il dissonante frastuono del maestro del sax tenore aveva da tempo anestetizzato tutto il popolo del jazz con i suoi convulsi richiami spirituali e la forza universale della sua musica che estremizzava sino al parossismo tutto ciò sino ad allora noto. LA COSA NUOVA!
Ecco che cos’era ALBERT AYLER: una volta che il guerriero ebbe preso consapevolezza che il suo talento innato sarebbe stato compreso dopo la sua m orte non si sentì più sé stesso.
Per una persona che non poteva non essere sé stessa era un vero problema, unito poi alla delusione per la stessa sorte toccata al fratello DON AYLER, venne difficile accettare la realtà così com’era.
Spirito indomito in una battaglia persa contro il tempo, come dimostrano i laceranti suoni che vengono proiettati come schizzi di sangue da esplosioni come la straordinaria e conclusiva Music Is The Healing Force Of The Universe.
Benchè all’avanguardia rispetto al resto del mondo anche il popolo più attento al cambiamento di New York non era pronto per tutto questo.
Ricordo che nel 1969, anno che segnò la perdita dell’innocenza con gli episodi di Altamont (ROLLING STONES) e la fine del rock’n’roll così com’era stato inteso sino ad allora, sono da segnalare anche l’uscita del primo album degli STOOGES di IGGY POP che ha letteralmente trasformato il concetto di performance ribaltando il rapporto tra chi sta’ sul palco e lo spettatore che si sono ritrovati uno di fianco all’altro in quel tumore che poi prenderà il nome di PUNK ed anche il primo album dei VELVET UNDERGROUND, (Mi tocca redarguirla, caro Reverberend: il primo album dei Velvet è datato 1966; nel 1969 uscì il terzo omonimo… n.d. Doom.) inginocchiati davanti alla perversa icona di Re ANDY WARHOL, come una frustata sado-maso sui detriti di New York.
La resa sonora di questo concerto è ancora scioccante, nei suoi 74 minuti di puro delirio, vero e reale specchio dei tempi per ciò che era successo in Vietnam e in America.
Non ci sono altri modi per descrivere il maelstrom incontrollato ad un passo dal rumore puro rappresentato da brani come Truth Is Marching in o la devastazione di Spirit Reunion.

Come ogni artista libero e rivoluzionario anche ALBERT AYLER ha dovuto pagare un prezzo troppo alto e ha dovuto proseguire la sua ricerca interiore su un altro pianeta a noi comuni mortali ancora sconosciuto.

Reverberend