Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

giovedì 22 dicembre 2016

DATURA - Visions Of The Celestial
(CD Cranium Records)


Non sono più il genere di persona che va alla disperata ricerca di cose sconosciute o dimenticate dai più ma quando capita di scoprire cose che rispondono a queste categorie, siccome sono rimasto molto curioso, non perdo occasione di confronto e verifica. E’ una cosa che mi stimola e mi piace ancora parecchio.
Vera linfa vitale.
E’ grazie a un non meno identificato giapponese che, in rete, imprecava contro tutti i cloni dei KYUSS o stoner-derivati o post grunge cloni che sono venuto a conoscenza di questi neo zelandesi DATURA che hanno realizzato due, qui da noi completamente sconosciuti, albums di qualita’ non trascurabile (meno il primo).
Visions For The Celestial vede la luce nel lontano 1999 ma vi assicuro che cercarlo oggi è un dovere per chiunque sia stato preso da qualsiasi tipo di rock duro e psichedelico o cose di questo genere.
Solitamente il peso degli anni, soprattutto in questi generi, si sente eccome, eppure i DATURA sono davvero una band pazzesca: i loro suoni sono ancora oggi sorprendenti per un uso assolutamente smodato di wah-wah e fuzz, per dei riffs di chitarra originali, una voce memorabile, calda e struggente, e una ritmica semplice ma potente e tribale.
Immaginate un power-trio sulla scia di jam bands anni settanta come i MOUNTAIN dei primi due albums (Climbing ! e Nantucket Sleighride, entrambi del 1970) dove chitarre solide e rocciose sono sempre sugli scudi a dominare la scena ma in questo caso sono accompagnati da una voce veramente fuori dal comune (di Craig Williamson, già fondatore degli ambient-psychedelic LAMP OF THE UNIVERSE).
I brani, dall’iniziale e slow spaced out Magnetise che, come lascia intendere il titolo, risulta magnetica e irresistibile, si susseguono con sussulti più veloci in Reaching Out ma saldamente ancorati a reminescenze STOOGES mai scontate e fresche e sorprendenti.
Heavy riffs a cascata con chitarre che sembra incredibile siano state registrate a fine anni novanta e psych trip che raggiungono il punto di non ritorno nelle finali Voyage dai sapori orientali e nel vero Mantra, come da titolo, finale di quindici minuti di pura trance rock psychedelic grooves impossibile da raggiungere.
Mi stupisco veramente di non averne mai sentito ne’ letto da nessuna parte perché sono veramente una band di peso ed ascoltata oggi sono ancora incredibilmente attuali e provo un brivido sulla schiena solo all’idea di paragonarli a delle bands, anche poi diventate famose, che occupavano posti rilevanti nella scena rock degli anni novanta.
Sono i misteri del ROCK, misteri che sempre ci accompagneranno e che rendono la MUSICA sempre NECESSARIA.
C’è e ci sarà sempre questa certezza per noi appassionati di musica e di rock, sempre alla ricerca del diamante perduto nelle sabbie del tempo.
A volte sorprende anche la rete e devo ringraziare lo sconosciuto giapponese che ha permesso a me e a quanti leggeranno queste poche righe questa notevole scoperta.

ROCK DUDES…

Reverberend

lunedì 12 dicembre 2016

Il meglio del 2016. Secondo gli Stellari.

REVERBEREND ha così sentenziato:

Playlist 2016
1. NICK CAVE - Skeleton Tree  Epica, Etica, Estetica e Contenuto... Oltre.
2. 40 WATT SUN - Wider Than The Sky  Il Cantautore nel post-moderno.
3. SINISTRO - Semente  Tensione e slow-motion rock, con una sensibilità da Femme                 Fatale.
4. DAVID BOWIE - Blackstar  Polvere di stelle negli interstizi della Metropoli.
5. MARS RED SKY - Apex III  Suono heavy nella visionarietà siderale.
6. WITCHCRAFT - Nucleus  Il magma espanso del doom tra le pieghe del modernismo.
7. JOE PURDY - Who Will Be Next?  L'intensità acustica vista dalla Generazione X.
8. WOLF PEOPLE - Ruins  Obliquo folk inglese che guarda lo stoner iper-elettrico.
9. LUCINDA WILLIAMS - The Ghost Of Highway 20  L'essenza sfocata del suono delle            highways e delle Strade Blu.
10. RAY LAMONTAGNE - Ouroboros  Un morbido e inaspettato viaggio nello Spazio.
11. DATURA4 - Hairy Mountain  Il sogno garage-psychedelico che irrompe nella realtà.
12. LEONARD COHEN - You Want It Darker  L'oscurità alla fine del tunnel.
13. SHELTERS - Shelters  Canzoni perfette tra classicismo e coolness odierna.
14. MICHAEL KIWANUKA - Love & Hate  La Galassia Black in un Universo differente.
15. PIERS FACCINI - I Dreamed An Island  I suoni del Mediterraneo nella piazza globale.

Canzone dell'Anno
Out There da Wildwood Calling di Bo Ramsey  Il suono dell'anima, fluttuando sui fantasmi nascosti dell'America perduta.

Reissues
1. TERRY DOLAN - Terry Dolan  Il rock negli anni Settanta, come una stella dal cielo.
2. TRAD GRAS OCH STENAR - The Anthology (3CD Box)  Un prezioso oggetto non                identificato dal Cosmo.
3. WEIRD LIGHT - Doomicvs Vobiscum  Il doom fatto in casa alla conquista del rock.
4. VV.AA. - Wayfaring Strangers:Cosmic American Music  Il velluto underground della           musica cosmica americana, pensata da Graham Parson.

Libro dell'Anno
HANYA YANAGIHARA - Una Vita Come Tante  Il dolore interiore e l'amore assoluto.

Film dell'Anno
TOM FORD - Animali Notturni  Una fotografia disturbata dell'animo umano.


EDVARD VON DOOM ha così deciso:

Playlist 2016
1. HAIL SPIRIT NOIR - Mayhem In Blue  Perchè tocca l'anima. Di taglio.
2. ORANSSI PAZUZU - Varahtelija  Letale black-psychedelia post atomica.
3. MYRKUR - Mausoleum  La luce del Nord. Un Kveldsfanger al femminile.
4. SINISTRO - Semente  Un colpo di fulmine clamoroso.
5. DAVID BOWIE - Blackstar  Il più bel canto del cigno di sempre.
6. ATOMIKYLA - Kerality  Radioattività dallo spazio profondo.
7. SYLVAINE - Wistful  La fata dei boschi.
8. DARKHER - Realms  La fata di altri boschi.
9. SPIRITUS MORTIS - The Year Is One  Il disco doom dell'anno.
10. BLUES PILLS - Lady In Gold  Saranno anche nati vecchi, ma avercene come loro.
11. VEKTOR - Terminal Redux  I Rush passati al frullatore. Mostruosi.
12. LEGENDARY PINK DOTS - Pages Of Aquarius  La solita classe inarrivabile.
13. DISCHARGE - End Of Days  Perchè al cuore non si comanda. Alive and proud!
14. MESSA - Belfry  Sorprendente, inaspettato e bellissimo.
15. JENNY HVAL - Blood Bitch  Un'altra magia di idee, voce e suono.

Reissues
ANGEL WITCH - Angel Witch (LP)  Il più bel disco della NWOBHM.
SAVAGE - Loose'n'Lethal (LP)  Il secondo più bel disco della NWOBHM.
THE DETROIT COBRAS - Life, Love And Leaving (LP)  Sexy da far paura.
CIRITH UNGOL - Paradise Lost (LP)  Era ora, cazzo, dopo 25 anni.
WEIRD LIGHT - Doomicvs Vobiscvm (CD)  Sepoltura Lacrimata.

Libro dell'Anno
ALESSANDRO ZIGNANI - La Storia Negata  Rimettere le cose a posto, nel '900 musicale italiano.

Film dell'Anno
Niente settima arte per me. Mi basta e avanza la realtà.


domenica 11 dicembre 2016

PAUL CAUTHEN - My Gospel
(CD Lightning Rod Records)


Ci sono in giro tantissimi cantautori e non è certo facile trovarsi di fronte ad un talento; a un artista che oltre a essere dotato di un carisma particolare è anche capace di scrivere ottime canzoni, di crearsi un proprio spazio in un mondo così affollato come quello musicale.
Non conoscevo assolutamente PAUL COTHEN e questo My Gospel è il suo debutto almeno da solista (prima aveva formato un duo, SONS OF FATHERS, con cui aveva realizzato due buoni albums segnalati da ROLLING STONES MAGAZINE, ma niente più).
E’ cresciuto con la musica intorno perché il padre ha suonato con tanta gente famosa, gente del calibro di WILLIE NELSON mica bruscolini, poi con le due sorelle è entrato a far parte del coro della chiesa vicino a casa.
In casa giravano parecchi dischi di ogni genere, con prevalenza di gente come ELVIS PRESLEY, ROY ORBISON e cose anni cinquanta.
Insomma un bel background che gli è stato davvero utile per sviluppare le sue sicuramente innate doti canore, la composizione è venuta dopo, strada facendo.
My Gospel è stato registrato in diversi famosi studi di registrazione come i FAME STUDIOS (MUSCLE SHOALS) o quelli di proprietà di WILLIE NELSON o i SARGENT RECORDERS in L.A..
Un’attenzione particolare dunque per i suoni, vintage, caldi e avvolgenti e una strumentazione ricca ma senza MAI strafare.
Lo stile di PAUL CAUTHEN dotato di una splendida voce baritonale, tra ROY ORBISON per le inflessioni anni cinquanta e JOHNNY CASH, è un originale miscela composta in parti uguali di country vecchia maniera, gospel, rock ed un  pizzico di americana tanto per gradire.
Ci troviamo di fronte ad un gran disco, lo si capisce immediatamente dopo aver ascoltato l’iniziale Still Drivin’ , nella quale con la sua voce decisamente sugli scudi ci fa capire chi comanda.
La strumentazione è ricca dicevamo ma è sempre al servizio del brano, nulla è in eccesso, la parte ritmica è moderna e si integra alla perfezione con riverberi anni cinquanta, voce al centro della scena e backing vocals solide e gospel.
Nel disco ci sono almeno tre brani che potrebbero entrare nelle case di milioni di persone per quel magico hook/catchy che non danneggia minimamente l’originalità dei brani: sto’ parlando di I’ll Be The One, la country & western oriented Saddle ed anche Marfa Lights.
Ma c’è anche Once You’re Gone, uno strano e improbabile incontro di BRUCE SPRINGSTEEN e JOHNNY CASH se proprio vogliamo azzardare.
Ci sono poi tre splendide ballate a cavallo tra country tradizionale e gospel (Be There Soon, Hanging Out The Line e la finale stupenda My Gospel), struggenti e con melodie davvero trovate.
Un posto speciale per la ballata notturna Let It Burn, cadenzata e con contrappunto di piano a sostegno di una voce davvero speciale e difficile da dimenticare.
Un disco che ci accompagnerà a lungo. Cercatelo e ascoltatelo attentamente, non potrete più farne a meno.
Una delle sorprese dell’anno, purtroppo arrivata troppo tardi per entrare nella top ten.
E’ solo questione di tempo, ne sentirete parlare. Statene certi.

Reverberend

sabato 10 dicembre 2016

VV.AA. - Dream Forever
(CD Mojo Magazine Jan.2017)


Non sono solito comprare spesso magazines straniere: reputo le più interessanti, a parte l’inglese SHINDIG! e l’americana UGLY THINGS le inglesi MOJO appunto e UNCUT.
In questo caso mi è caduto l’occhio sul CD allegato a questo numero di Gennaio del prossimo anno alle porte e, siccome non avevo nessuno dei brani contenuti e il tema non mi era indifferente ho ceduto all’acquisto.
In onore di KATE BUSH che dopo trentacinque anni ha creato uno show multi mediale su più livelli, musicale e al tempo stesso visivo, la redazione di MOJO ha pensato di omaggiare gli acquirenti della rivista con un CD di vari artisti contemporanei che vanno da ambientazioni molto cinematiche e tranquille, tradizionali ma con momenti di euforia moderna e moderatamente elettronica.
Chiamatelo pure DREAM POP, perché in fondo così si è deciso di etichettarlo. Almeno la critica.
Un fenomeno che non ha cedimenti di sorta in questa epoca confusa e isterica che forse, tra i sogni e bisogni, nasconde una voglia di serena tranquillità tra un dovere e un impegno impossibili da prorogare.
Ecco allora, da una frase di KATE BUSH un “qualcosa in un sogno tra il sonno e la veglia” tra le pieghe di quelle tenui ed estese pulsazioni che albergano nella più quieta elettronica di stampo indie.
POLICA, con la brezza sensuale di Lately , ritmicamente ondulata abbraccia a meraviglia la moderna alterità pop e mantiene costante una ricerca verso forme differenti di brano condiviso dalla massa operosa.
Una lieve sensazione di benessere quella consegnata da ALBUM LEAF e la loro Never Far che si distingue tra le increspature dell’oceano di insistite armonie.
Ecco quindi le commoventi astrazioni melodiche di Atomos VI  di A WINGED VICTORY FOR THE SULLEN ovvero ADAM WILTZIE degli STAR OF THE LID che collabora per la piece teatrale del 2013, Scored For Wayne McGregor, con lo straordinario pianista e polistrumentista DUSTIN O’HALLORAN stupendoci, come mai prima, con un vellutato paradiso di distese note elegiache.
L’incanto prosegue con la luce romantica e innocente di THE ANCHORESS e la sua Bury Me con un’austera classicità tra quiete e melodia come una delicata cascata di petali di rosa.
Suggestiva, tra minimalismo anni settanta e sconosciute colonne sonore di b-movie dello stesso periodo, e sorprendente tra contrappunti di estrazione classica e magmatico modernismo pop la compositrice e film maker texana (Austin per la precisione) SARAH LIPSTATE in arte NOVELLER e la sua Corridors che ci anticipa il suo atteso debutto A Pink Sunset For No One Released che uscirà il 10 Febbraio per FIRE REC..
Strepitoso anche il disfacimento minimal techno attuato dal trio di estrazione jazz DAWN OF MIDI e la loro The Hills che con un’elegante ripetizione ritmica richiama la perfezione basic channel di MORITZ VON OSWALD e la porta a flirtare con memorie dello stratosferico ARTHUR RUSSELL.
Decisamente più pop oriented ma non certo priva di fascino I Will Follow di AMBER ARCADES che avvolge con la sua dolce solarità sciolta nei ricordi un’estate da non dimenticare.
Potrebbe essere un magico posto dove vivere Porz Goret  raccontato in chiusura con la consueta eleganza e gentilezza da YANN TIERSEN: poche e decise note di elevato contenuto emotivo.
Decisamente consigliato per una visione d’insieme sull’oceano di pop sognante in continuo movimento tra le pieghe della nostra quotidianità.
Buon ascolto…

Fabio Reverberend Avaro

venerdì 9 dicembre 2016

THE FRIGHTNRS - Nothing More To Say
(CD Daptone Records)


C’è stato un periodo, fine anni ottanta, nel quale il sottoscritto, ogni qualvolta gli fosse possibile, girava tutti gli anfratti londinesi alla ricerca di dischi rocksteady, bluebeat, ska e ciò che gravitava intorno al mondo degli original skins (nulla a che fare con gli skinhead figli degli anni settanta e del punk di la’ da venire): quindi tutta musica giamaicana o inglese della prima metà degli anni sessanta e oltre.
Beh, non immaginate quanto ben di Dio ci sia nascosto in generi apparentemente dai più non considerati cool ma invece veramente sorprendenti.
Oltre al noto negozio DADDY KOOL, ricordo in Soho, che si andava a cercare dischi, giuro, all’entrata di un bordello dove il giovedì pomeriggio arrivavano dei loschi figuri ultra tatuati che esponevano delle cassette di legno zeppe di sconosciuti capolavori che arrivavano da chissa’ dove e forse era proprio meglio non chiederselo.
Non parlo solo di nomi molto noti come KEN BOOTHE o DESMOND DEKKER (che tra l’altro ho visto a Londra al mitico ASTORIA THEATRE con i TROJANS del grande GAZ MAYALL, figlio di JOHN MAYALL, e MAROON TOWN nel 1987) ma anche di tutto un sottobosco di band meno note ma seminali come per esempio i leggendari SIMARYP di SKINHEAD MOONSTOMP, i PARAGONS o il grandissimo ALTON ELLIS soltanto per citarne alcuni.
Immaginate il mio stupore durante l’ascolto di questo straordinario disco assolutamente fuori dal tempo, da ogni tempo.
I FRIGHTNRS erano (hanno perso il loro FORMIDABILE cantante DAN KLEIN a causa di una malattia degenerativa che lo ha letteralmente stroncato nel giugno di quest’anno!) una formazione che poteva far invidia ai migliori originali dell’epoca d’oro se mai ce n’è stata una.
Una voce struggente e incredibile (per farvi capire meglio siamo dalle parti di Live Good di KEN BOOTHE per il sottoscritto uno dei brani più belli di sempre) integrata in una miscela sonora realmente inappuntabile con ritmi in levare e melodie inarrivabili.
Si fatica a credere che una band del genere possa esistere nella nostra contemporaneità.
I suoni e i brani, la bravura di questi quattro rude boys lasciano a bocca aperta: si rischia davvero di cadere nella più trita nostalgia ma, oggi, è davvero impossibile pensare che possa esistere una band così. Eppure Nothing More To Say  è stato registrato per dimostrare esattamente il contrario ovvero che tutto è possibile quando la passione e la voglia sono le prime priorità. La voglia e la costanza necessarie per raggiungere un sogno apparentemente assurdo e forse persino stupido agli occhi della maggioranza silenziosa.
Commoventi brani come What Have I Done o Purple (quest’ultimo, non so’ spiegarmi il motivo ma mi ha ricordato tanto un formidabile disco di PHILLIS DILLON , One Life To Live, uscito per la DUKE REID REC. del giro TREASURE ISLE, un po’ come dire le sorelle minori di STUDIO ONE e COXSONE REC.).
Come resistere all’andamento killer di Trouble In Here, con tanto di assolo centrale di armonica, e non lasciarsi andare e stramazzare sul dancefloor con tutti gli altri all-nighters ballando spalla a spalla!
Quante emozioni ascoltando Till Then (certo per me rimane anche il ricordo incredibilmente vivido di un amico, Berny, che non è più con noi) con la voce che si alza verso il cielo verso un mondo migliore.

Una scelta di cuore, controcorrente e difficile ma non impossibile.

Reverberend

CHILD - Blueside
(CD Kozmik Artifact)


I CHILD sono una giovane e ancora purtroppo sconosciuta band australiana giunta, con questo Blueside, al secondo disco dopo l’omonimo esordio di due anni orsono.
Quando avevo ascoltato, per la prima volta, il loro esordio ero sobbalzato sulla poltrona non riuscendo a capacitarmi di fronte a tanto talento messo al servizio dei brani di stupefacente freschezza in un genere, quello del rock blues anche se iper amplificato, certamente saturo e con poche prospettive di sbocco.
Non sapevo proprio cosa aspettarmi da un disco nuovo, non riuscivo nemmeno a immaginare come avrebbero potuto evolversi o semplicemente diversificare la loro formula già perfetta.
Credetemi, i CHILD sono una band P-A-Z-Z-E-S-C-A senza mezzi termini: le risposte a tutte le possibili e lecite domande sono contenute in Blueside.
Non so bene da dove iniziare ma ci provo ugualmente perché ne vale la pena.
L’opener è un brano stranamente intitolato Nailed To The Cross  (si inizia dalla fine….) che ci presenta la band al meglio in un territorio di cadenzato rock-blues con suono vintage ma saldamente ancorato alla modernità con una voce assoluta padrona della scena, calda, possente e struggente sino a quando non entra in scena una chitarra elettrica liquida e psichedelica supportata da un organo che rende il suono ancora più solido.
It’s Cruel To Be Kind prosegue con riverberi ultra-terreni di traditional blues con le vocals sempre sugli scudi che si alternano a fasi iper atomiche di elettricità dalla profondità sorprendente che si adagia su ritmi potenti e tribali.
Stupisce la scioltezza e la creativa interpretazione di standard blues ormai assimilati alla perfezione: è fondamentale il ruolo dei volumi, di un suono incredibile e dell’improvvisazione che li proietta direttamente in una dimensione spacey.
C’è un equilibrio di virtuosismi messi al servizio della canzone che rende i CHILD inarrivabili oggi in questo genere.
2000 Light Years From Home per dirla alla STONES: davvero sembrano provenire da un altro mondo.
Vorrei riuscire a iniettarmi questo sound e non separarmi MAI da esso…
E’ davvero arduo trovare parole per descrivere la finale The Man, vero punto di non ritorno per chiunque si voglia confrontare con il ROCK: MUSICA TOTALE, ecco forse solo la struttura elicoidale del dna connaturata con il mondo incontaminato e primordiale raffigurata sulla magnifica cover di questo CD può darne una possibile idea. La natura, l’essenza del blues da cui tutto è derivato e si è sviluppato, che abbraccia humus di stasi quasi ambientale per crescere in direzione elettrica con la chitarra che disegna assoli astratti ma profondamente armonici e la voce calda e sofferta che ci accompagna oltre il muro, apparentemente invalicabile, del noto.
CINQUE FOTTUTE STELLE, credetemi.

Reverberend

mercoledì 7 dicembre 2016

HAIL SPIRIT NOIR - Mayhem In Blue
(CD Dark Essence Records)


Difficile essere greci, di questi tempi. Dall’ esplosione della crisi economica, le condizioni del paese non hanno fatto che peggiorare. Ma si dovrebbe parlare della condizione del popolo, non dei conti. La Grecia vive da anni sull’orlo del baratro, mendicando ciclicamente “aiuti” alle istituzioni economiche europee e mondiali, barattandoli ogni volta con “riforme” che immancabilmente hanno effetti tragici sulla gente comune. La tensione si può toccare con mano ad Atene, Salonicco e in tutta la nazione. Costantemente sul filo del rasoio. Senza alternative, visto che anche chi è stato eletto al governo con un programma anti-austerity si applica con zelo a realizzare ogni diktat che arriva dalla Troika. No, non è facile essere greci, oggi.
Non so dire se e quanto tutto questo abbia influito sugli Hail Spirit Noir, nella composizione di Mayhem In Blue. Di certo so che hanno prodotto in questi anni tre dischi, uno più bello dell’altro.
L’esordio Pneuma scioglieva con successo le primigenie sonorità black metal (ricordiamolo: la Grecia vanta una scena black che per importanza non ha nulla da invidiare a quelle scandinave) in un liquido soundscape pinkfloydiano, mentre il successivo e riuscitissimo Oi Magoi flirtava pesantemente con il jazz. Mayhem In Blue è creatura ancora diversa.
Azzardo: una perfetta fusione di rock psichedelico anni ’70 e spirito black metal.
Compositivamente originale e indovinato, il disco sfrutta una strumentazione non convenzionale, che contempla organo Hammond, flauto, elettronica e chitarre acustiche. Un animale strano, questo Mayhem In Blue, parecchio in certi frangenti, e carnevalesco, e pure swingante. I momenti di ferocia black metal sono ridotti all’osso, la voce è sovente pulita e intelleggibile. Ma non c’è dubbio che si tratti di un lavoro ESTREMO.
In ognuno dei sei brani si trova qualcosa di inaudito, inusitato, sorprendente; tanto che la loro lunghezza (il tutto arriva a 40 minuti) non si avverte, anzi, ci si scopre ad ascoltarlo in loop senza il minimo sforzo.
Nell’iniziale I Mean You Harm ed in Lost In Satan’s Charms si trova una reminiscenza degli A Forest Of Stars, forse per il modo di cantare; mentre la title track  e Riders To Utopia sono percorse da schegge di tastiere che sembrano posizionarsi a cavallo tra garage rock, melodie synth-pop anni ’80 e spezie mediorientali (che ci crediate o no, funziona). Sempre in Lost In Satan’s Charms trovano posto un luminoso banjo (!) e delle campane di grande intensità emotiva. The Cannibal Tribe Came From The Sea (ah, la copertina… Per chi suonerà quella campana? Forse per l’intera nostra civiltà, decaduta ormai a pallida idea di ciò che fu?) si avvita fascinosamente  in spirali di suono magnetiche, alternando momenti di asprezza a slarghi psichedelici sinuosi… Fantastica, da pelle d’oca, giuro.
La chiusa di How To Fly In Blackness è sontuosa: un’intro che parte dalle colonne sonore da film italiano dei ’70 e si trasforma via via in una versione da Kali Yuga dei Pink Floyd; synths avvolgenti e chitarre gilmouriane, un crescendo di abbagliante bellezza striato di rabbia e frustrazione. Sempre sull’orlo dell’Abisso.
Mayhem In Blue attrae in modo quasi ipnotico, anche per l’alternarsi continuo delle emozioni che trasmette; mentre l’atmosfera generale resta oscura e a tratti sardonica. Come fosse la colonna sonora della DECADENZA.
In filigrana si scorge un talento immenso nel songwriting, nell’arrangiamento e nell’abbellimento dei brani con piccoli accorgimenti, sempre diversi ogni volta.
E la cosa migliore è che alla fine non serve catalogare o definire la musica di questo disco, basta ascoltarla.
Ed è tra le più entusiasmanti che possiate ascoltare quest’anno.


Edvard von Doom

sabato 3 dicembre 2016

SPIRITUS MORTIS - The Year Is One
(CD Svart Records)


Sollecitato dal buon Reverberend a scrivere di questo cd, devo iniziare con il fare ammenda: pur essendo The Year Is One il loro quarto disco, non ho mai approfondito come avrei dovuto il loro lavoro. Forse perchè pensavo che la presenza di Sami Hynninen alla voce li ponesse nella categoria degli epigoni in minore di Reverend Bizarre e Lord Vicar, nei quali il cantante ha militato in passato. Che errore marchiano, ho fatto! Io, poi, che mi firmo von Doom…
Bene, dopo avere svuotato il posacenere stracolmo sulla mia inutile crapa, ed aver recuperato la dignità con una full immersion dei loro dischi, eccomi pronto a scrivere di questo masterpiece.
Avvolto in una copertina che dire bella è poco (si tratta di un particolare dal dipinto Il Naufragio Della Speranza di Caspar David Friedrich, pittore romantico e DOOM da morire), questo album è uno dei vertici assoluti in campo metallico, e non solo, di questo 2016.
Con The Year Is One, i finlandesi hanno realizzato uno stupefacente tour le cui tappe toccano praticamente tutti i sotto-generi del doom: dal classico, all’epico e all’occulto; il tutto però, mantenendo una coesione ed un’ispirazione elevatissime. In quanti possono vantarsi di questo, in un ambito statico come questo? Ben pochi, miei cari, ben pochi.
L’opener Robe Of Ectoplasm è una bomba che ricorda le prime cose dei Grand Magus: un corpo hard rock che contiene uno spirito doom immacolato, perfetta per iniziare le danze. Se poi volessimo istituire il premio Canzone Doom dell’Anno, la seguente I Am A Name On Your Funeral Wreath potrebbe vincerlo: la voce di Sami sembra miracolosamente prendere le sembianze di Scott Reagers e il suono pesante e ferale rimanda appunto ai migliori Saint Vitus. Si chiama PERFEZIONE, e ogni volta che la sento me ne convinco di più.
Con Babalon Working cambiamo ancora atmosfera e ci dirigiamo verso lidi limacciosi che una volta erano la forza di una band indimenticabile come i Solitude Aeternus: pesanti si, ma anche melodici ed evocativi. Altra meraviglia, signori, è Jesus Christ, Son Of Satan; esattamente a metà strada tra i Black Sabbath ed i Cathedral.
E a questo punto potrei anche smettere di pigiare sui tasti, tanto già adesso questo disco si merita l’adorazione eterna di ogni doomster che si rispetti. Ma mica finisce qui…
Holiday In A Cemetary si rivolge di nuovo ai Saint Vitus, con una performance di Hynninen superlativa, mentre narra di necrofilia ed altre prelibatezze.  World Of No Light ci trasporta invece in un clima epico, memore della lezione dei Pallbearer e dei Warning. Ma la cosa davvero impressionante è che, nonostante tutto il name-dropping che ho sciorinato finora, la personalità degli Spiritus Mortis appare vivida e convincente, grazie ad una capacità di scrittura incredibile ed efficacissima. Prova ne sia che i 53 minuti di durata del disco scorrono via che quasi non ci si accorge, e in questo genere succede solo con i capolavori, punto e basta.
Rimarchevole, poi, la crescita di Sami Hynninen come cantante: non lo ricordavo così efficace nei lavori precedenti con i Reverend Bizarre. Chapeau!
Nota di merito (sarebbe meglio una lode, va..) ai chitarristi Jussi Maijala e Kari Lavila, i cui riff si susseguono incessantemente senza un attimo di cedimento, con grande gusto e raffinatezza, e i solismi non sono mai a sproposito e perfettamente inseriti nell’economia dei brani.
Ognuno la pensi come vuole, ma per il sottoscritto in cima all’Olimpo Doom quest’anno ci sono gli Spiritus Mortis e pochi altri.

Disco semplicemente INDISPENSABILE.

Edvard von Doom

FAY HALLAM - House Of Now
(CD Well Suspect Records)


Mi sono innamorato di FAY HALLAM nel lontano 1985 quando ho comprato il primo disco, Rhythm And Soul , dei suoi MAKIN’ TIME: è stato il classico colpo di fulmine.
Con il passare degli anni non mi ha mai tradito proponendo SEMPRE musica originale ed esclusiva, magari non per tutti ma per tanti sicuramente.
Sono anche andato a Londra a trovarla quando era felicemente sposata con GRAHAM DAY (dispotico leader dei PRISONERS) e suonavano insieme in quella miracolosa band chiamata PRIME MOVERS che macinava solido hard-progressive-beat che, in alcuni casi, ricordava i primi DEEP PURPLE, quelli di Shades Of…, con FAY a fare egregiamente la parte di JOHN LORD.
Il matrimonio, probabilmente impossibile, è fallito ma FAY non si è persa d’animo ed ha continuato a comporre il suo fantastico sound ora con influenze della migliore JULIE DRISCOLL ora con profumi bossa-jazz delicati ed eleganti (come nell’ultimo splendido Corona dell’anno scorso).
A differenza di GRAHAM DAY che è rimasto ancorato al sound di sempre quindi fortemente influenzato dal garage dei medi sessanta, da JIMI HENDRIX e dalle colonne sonore di oscure serie televisive di quegli anni (come dimostra anche l’ultimo disco a nome THE SENIOR SERVICE ovvero The Girl In A Glass Case) FAY ha modificato il suo modo di comporre senza tradire le influenze iniziali quindi tenendo ben stretti i riferimenti ai mitici anni sessanta ma inglobando anche influenze più legate agli anni settanta (certo progressive inglese di scuola BRIAN AUGER ed i suoi TRINITY) come anche influenze di certa Bossanova dai sapori più malinconici e riflessivi.
Penso che proprio ora FAY stia raccogliendo grandi soddisfazioni con un più ampio consenso di pubblico, profondamente meritato, e con questo nuovo ed inaspettato House Of Now la situazione non potrà che migliorare per lei.
Da notare che l’etichetta è la WELL SUPSECT ovvero la nuova etichetta di EDDIE PILLER che con GILLES PETERSON ha fondato in passato la storica ACID JAZZ RECORDS dando origine a praticamente tutto ciò che è successo dopo in ambito grooves, world, comprese tutte le derive garage-beat di ciò che è rimasto di quella scena.
House of now inizia immediatamente con un irresistibile groove cadenzato e coinvolgente che apre il brano all’entrata della voce calda e pastosa di FAY che, al solito,  ci guida attraverso meraviglie sonore dal sapore caraibico ed inaspettato.
Do You Know How To Love me ci regala un classico refrain memorabile ed ancora la magica voce di FAY sugli scudi: una ballata davvero splendida e da ascoltare a nastro.
Ascoltare un disco di FAY HALLAM mi dona una sensazione bellissima paragonabile a quando si torna a casa dopo una giornata di lavoro. E’ difficile scriverlo in altri modi. Spero riusciate a comprendere ciò che voglio dire. Una sensazione di calore avvolgente, di coccole, di affetto.
Drowning prosegue al meglio con un’altra ballata dallo stampo classico, con voce trattata e le note che scorrono veloci lasciando un segno indelebile.
Non voglio descrivervi tutti e tredici i brani, voglio lasciarvi la sorpresa di scoprirli durante l’ascolto.
E’ tutto al posto giusto in questo disco, di stampo classico, ma c’è una stupenda sensazione di freschezza che solo i grandi riescono a creare componendo un brano dalla struttura tradizionale.
Ed è proprio questo che, almeno ai miei occhi, rende FAY HALLAM una musicista tra le migliori di oggi.
Ha sempre seguito la sua strada raccogliendo sicuramente meno di quanto abbia seminato ma questo non è MAI stato un problema.
Continuerà SEMPRE così, seguendo il suo cuore e la sua passione di sempre: la musica.
Non è detto che magari, meglio tardi che mai, potrebbe pure avere dei riscontri inaspettati.
Ma questo ribadisco, da molto tempo è una certezza, non è mai stato un problema e non lo sarà neanche in futuro. Al prossimo appuntamento cara FAY e grazie per questo tuo nuovo dono.
Un dono del cielo ed un artista in stato di grazia.

Reverberend

WOLFTONE - Bring Down The Sun
(CD Bandcamp)


L’ascolto di Bring Down The Sun mi ha sorpreso.
Non conoscevo minimamente questi WOLFTONE olandesi. Mai sentito parlare di questa band.
Il loro è un sound completamente immerso nella cultura anni sessanta fatta di brani semplici devastati da massicce dosi di fuzz, con chitarre sempre sugli scudi, ritmi mid-tempo perfetti e quadrati e voce pastosa con melodie indovinate ma mai scontate.
Una formula che non ha niente di nuovo. Eppure, eppure... Durante l’ascolto i brani scivolano come acqua sulla pietre. Si rinizia un altro ascolto e la cosa si ripete… Una meraviglia.
Oggi non è facile, almeno in questo ambito, trovare una band come i WOLFTONE.
E’ facile intuire che quello che guida questi ragazzi, non più giovanissimi, è solo la passione e gli ascolti compulsivi di oscure compilations dei sixties più nascosti e degenerati.
Fate conto che queste registrazioni sono del 2015 e nessuno si è accorto di loro. NESSUNO!
I’m Out inizia con un riff incisivo scolpito nella pietra che si stampa direttamente nel cervello: vengono in mente i migliori SEEDS di SKY SAXON!
E’ ovvio che nei sixties non era possibile avere un fuzz così devastante ma i WOLFTONE ne fanno un uso al servizio della canzone, pieno di riverberi e con assoli perfetti e iper-coinvolgenti.
I Can’t Reach You è un CAPOLAVORO: semplicemente perfetto nella sua semplicità con il coro di doppie voci, maschile e femminile, che lo rende irraggiungibile.
Ricordano per molti versi e per restare più vicino a noi, nella nostra epoca, i BABY WOODROSE ma risultano più freschi e diretti.
Should Have Been è un altro brano spettacolare con giri di basso memorabili e ritmi mid-tempo che accompagnano la chitarra verso il coro da mandare a memoria. Christine è una lenta e malinconica ballata dove è la voce a farla da padrone sino a quando la chitarra entra con un prolungato assolo spaced-out.: struggente!
Il loro suono è molto pulito e ordinato anche se mooooolto elettrico; forse il loro segreto è proprio questo.
Hanno pensato a comporre belle canzoni e non solo al suono, con melodie vincenti che si integrano alla perfezione con il loro suono garage sino al midollo ma anche molto duro.
Come se l’elettricità propria di una band come i BLUE CHEER si integrasse con i riffs geometrici dei SONICS!
I’ll Never Change, altra ballatona malinconica e melodica che letteralmente esplode in epici cori sostenuti impeccabilmente con un semplice arpeggio elettrico che la rende unica e sfocia in assolo pulito e incisivo di chitarra. La formula si ripete in tutti e undici i brani di questo Bring Down The Sun.
Semplicemente una cosa che funziona a meraviglia.
HEAVY ROTATION ASSICURATA, credetemi.

Reverberend

mercoledì 30 novembre 2016

HÉLÈNE GRIMAUD – Water
(CD/LP Deutsche Grammophon)


Musicista di vaglia e artista dai molti talenti (non ultimo quello di apprezzata scrittrice), fondatrice del Wolf Conservation Center per la salvaguardia dei suoi amati lupi e dell’ambiente naturale tout court; Hélène Grimaud continua ad affascinare i suoi ammiratori anche con questo ultimo lavoro, uscito a febbraio di quest’anno. La quarantaseienne pianista francese (ma davvero cittadina del mondo), universalmente acclamata per le sue interpretazioni di Chopin, Brahms e Rachmaninov, questa volta propone un’opera, interamente registrata dal vivo; che è stata oggetto di varie performance, il cui tema portante è, come dice il titolo, l’acqua.
Si tratta di una raccolta di brani per pianoforte dove l’acqua ed il simbolismo che essa si porta appresso fungono da trave concettualmente portante. Ad accompagnarla in questo disco troviamo il compositore anglo-indiano Nitin Sawhney (anche come produttore): la sua funzione è quella di intervallare i brani interpretati dalla Grimaud con delle improvvisazioni elettroniche denominate Transitions. Ma andiamo con ordine. Le composizioni scelte dalla bella pianista (a proposito: lo sapevate che le copertine dei suoi dischi rivaleggiano con quelle delle più famose popstar, iconograficamente parlando?) spaziano dal classicissimo Jeux d’Eau di Maurice Ravel a Wasserklavier di Luciano Berio a Barcarolle di Gabriel Fauré; in tutti i brani l’acqua non rappresenta solo se stessa ma anche i concetti di flusso, movimento, metamorfosi e incatturabilità. Un pezzo come Almeria di Albeniz, per dire, ha in sé “l’ondulazione ritmica che rispecchia la vita, scandita dal mare, della popolazione di quella città costiera” (parole sue).
E potremmo anche dire che una delle idee più accattivanti, che stanno dietro al concetto di acqua, è la sua capacità di cambiare stato: come spiegare sennò la presenza di quel capolavoro che è In The Mists (Nelle Nebbie) di Janaček?
Dicevamo prima delle Transitions di Nitin Sawhney: invero parrebbero non centrare nulla con le altre composizioni, ma la loro presenza è quasi una necessità. Immaginatevi di passare da una stanza all’altra di un fantastico palazzo: i brani sono le varie stanze, le transizioni potrebbero essere i corridoi. Ma, per rimanere in tema acquatico, mi piace pensare che si tratti di una specie di bagno purificatore, un liquido amniotico attraverso il quale purificarsi prima della nuova esperienza che ci attende. In ogni caso, l’insieme del tutto è rapinoso e affascinante.
A conti fatti, è l’ennesima sfida (vinta, va da sé) di un’artista che non è mai scesa a compromessi e si è sempre esposta in prima persona con le sue scelte di repertorio e di vita, che non ha mai guardato in faccia a nessuno e ha sempre detto ciò che pensa. Memorabile, in proposito, la volta in cui ha mandato allegramente a quel paese quel vecchio trombone intoccabile di Abbado, reo di non volerle far suonare la cadenza di pianoforte da lei scelta, per un concerto di Beethoven! Pochi avrebbero avuto il coraggio di contraddire il venerato Maestro…
Da gennaio 2017 la vedremo nuovamente al fianco della violoncellista Sol Gabetta per una serie di concerti con musiche di Pärt, Schumann, Debussy e (non manca mai!) Brahms.
Altre magie ci attendono…

Edvard von Doom

martedì 29 novembre 2016

ROLLING STONES - Blue & Lonesome
(CD/LP Polydor Records)


Il ventitreesimo album inglese dei ROLLING STONES (ed il venticinquesimo americano) è FANTASTICO (cuore) ed INUTILE (testa).
FANTASTICO perché è composto di sole covers semisconosciute di blues, il genere musicale che ha dato loro un significato epocale ed inarrivabile nella storia della musica rock: è un omaggio ai loro padri spirituali.
Certamente va poi considerato che a differenza dei “cugini” americani i nostri beniamini inglesi non hanno copiato filologicamente i grandi maestri ma hanno avuto, sin dall’inizio, un approccio più spregiudicato ed hanno saputo shakerare e reinventare dall’interno un genere nato in America e rimbalzato, nel corso della storia, tra le due sponde dell’Atlantico.
INUTILE perché siamo tutti d’accordo che è un disco che nulla toglie e nulla aggiunge a quanto fatto dagli stessi STONES in tutta la loro carriera.
Come avrebbe potuto essere altrimenti? Gli STONES avevano già fatto più di qualsiasi altra rock band sul pianeta terra tanto tempo fa’. Avrebbero potuto scomparire già da molto tempo; non avrebbe fatto differenza alcuna in senso storico. Anche su questo siamo perfettamente d’accordo. Non è questo il punto.
Analizziamo il disco senza troppe elucubrazioni.
Lo slogan utilizzato da MICK JAGGER per la promozione è: “Cinque decadi per realizzarlo, soltanto tre giorni per registrarlo”.
Il disco è stato registrato nei British Grove Studios di West London, non lontano da Richmond dove sorgeva il CRAWDADDYS, il leggendario club dove iniziarono la carriera ANIMALS, YARDBIRDS e tutte le bands inglesi della nuova ondata “blues” e “rythmn & blues” agli inizi degli anni sessanta.
L’inizio di tutto in un certo senso.
Prodotto da DON WAS, oltre che dalla magica coppia, Blue & Lonesome  ha un suono FANTASTICO, caldo e vintage, proprio come allora: INCREDIBILE!
I brani della tracklists prevedono esclusivamente dodici covers, poco note, di LITTLE WALTER, CHESTER BURNETT, HOWLIN’ WOLF, WILLIE DIXON, EDDY TAYLOR… insomma il disco è proprio la chiara testimonianza della purezza dell’amore che la band nutre ancora nei confronti del BLUES elettrico americano.
Sembra di sentire una band di giovani strafottenti che scimmiotta gli stessi STONES di metà anni sessanta: per essere più precisi sembra un album dei CHESTERFIELD KINGS di GREG PREVOST, se capite ciò che voglio dire.
Badate bene che anche il primo album della band di GREG PREVOST, uscito nel 1982, Here Are…. era composto interamente da covers ma, in questo caso, di oscure bands garage-punk dei medi sessanta americani post  britsh invasion (che all’epoca nessuno conosceva quindi era come se fossero brani nuovi per la maggior parte delle persone) ed anche in quel caso c’era chi sosteneva che non aveva senso realizzare un album di sole covers eseguite, per di più, in maniera assolutamente ossessiva e filologica.
Per assurdo, uno dei dischi più puri in campo rock: un atto d’AMORE ASSOLUTO.
Esattamente come in questo caso.
Il ritorno alle origini del suono.
Al suono più puro.
Amore puro e trasparente.
Il paragone con i CHESTERFIELD KINGS viene spontaneo perché il suono è caldo e ruvido come da tempo non succedeva negli album degli STONES, ed è proprio il suono perfetto per questo tipo di brani: diretto, potente e senza inutili fronzoli!
OGGI come ALLORA, perché come ho sempre sostenuto, certo tipo di rock, istintivo e primordiale, non ha bisogno di alcuna evoluzione contenendo già di per se’ tutta la carica eversiva che necessita per dare un senso compiuto a quel tipo di suono nato crudo e selvaggio come rappresentazione sonora della rabbia e frustrazione di chi è nato dalla parte sbagliata: nati perdenti!!
AUTENTICO CIBO PER L’ANIMA… Statene certi.

SATISFACTION GUARANTEED!

Reverberend

VV.AA. - HIGHWAY PRAYER: A Tribute to Adam Carroll
(CD Eight 30 Records)


ADAM CARROLL è un musicista poco conosciuto fuori dal Lone Star State (Texas) eppure ha un’importanza focale per quella terra tanto da essere sempre paragonato a giganti come JOHN PRINE e TOWNES VAN ZANDT.
Questo tributo è realmente FANTASTICO.
I suoni e le canzoni presenti hanno un’unica religione: le strade che attraversano il grande nulla, la terra unica ed insostituibile quale è l’America, questa America, la sua mitologia ed i suoi segreti.
Sono presenti quindici canzoni senza alcuna caduta di tono e con picchi di assoluta eccellenza (JAMES McMURTRY, HAYES CARRL, SLAID CLEAVES, mi fermo altrimenti li cito tutti) ed una bonus track dello stesso ADAM CARROLL, la bellissima My Only Good Shirt.
I suoni arrivano dal cuore, dal cuore del Texas, e lì ritornano in un magico cerchio che si chiude perfettamente.
In fondo è lo stesso percorso intrapreso da LEAST HEAT-MOON (il suo libro manifesto Strade blu) o da ALEX SHOUMATOFF (Leggende del deserto americano); un viaggio al centro della terra, di quella stessa terra che ha dato i natali a questi suoni, a questo modo di fare musica, di raccontare il territorio e di scioglierlo nelle nostre vene.
Immaginate di essere su di un greyhound ed abbandonate ogni pensiero, concentratevi su ciò che vedete fuori dal finestrino: vedrete vite di tante persone che sono nate, cresciute e morte per la loro terra (le stesse persone che abitano i suoni di tutte le canzoni presenti in questo disco), sentirete i loro racconti, le loro leggende, la loro storia.
La storia della nostra musica.
La cosa incredibile è il legame indissolubile, come un immaginario filo con tanti nodi, tra territorio, racconti orali e suoni.
Una cosa sola e forse è proprio questo che rende unici, sempre uguali a se stessi e sempre differenti, questo genere di musica fortemente tradizionale ed ugualmente emotiva.
Abbandonatevi in questo deserto di note e, come scrive nell’introduzione di questo CD BRAIN T.ATKINSON: “queste canzoni allieteranno l’alba del vostro domani…”.

E’ una promessa, credetemi.

Reverberend

THE BLEU FOREST - A Thousand Trees Deep
(CD Gear Fab)


Ho passato parecchio tempo della mia vita viaggiando (la rete informatica ed i computers erano ancora, forse direi fortunatamente, degli alieni per i più) alla ricerca di dischi e ristampe di misconosciute e dimenticate bands dei medi sessanta trovandone davvero tante per nulla considerate e davvero meritevoli di un riconoscimento o almeno di attenti ascolti.
Dopo tanto tempo e innumerevoli ascolti trovavo veramente difficile entusiasmarmi nuovamente per dischi di quel proficuo ed irripetibile periodo storico sino a quando un mio caro amico mi ha sottoposto questo ritrovamento di un disco del 1968 mai uscito all’epoca e ricavato dai nastri scoperti nel semi interrato dell’unico membro della band sopravvissuto, ovvero Jack Caviness.
Beh, gente, ci troviamo di fronte ad un piccolo classico perduto tra le sabbie del tempo senza dubbio.
La cover, perfetta, ci trasporta in territori come Ventura County, dove erano nati appunto i BLEU FOREST; territori dominati da foreste fiabesche e grandi spazi che ritroviamo avvolti nelle crepuscolari e malinconiche trame dei brani in puro stile moody con tanto di organo che rende il suono più spesso, materialmente, che permeano come un manto di un inverno temibile ed affascinante al tempo stesso.
Davvero impossibile scindere i brani di A Thousand Trees Deep dal territorio fortemente caratteristico di provenienza.
Come potete immaginare la gestazione di queste registrazioni è stata molto avventurosa, tra le colline di Hollywood, lo studio di Jimmy Haskell e tutte le registrazioni ripetute per avere un migliore suono di batteria, i continui sacrifici, i concerti con leggende minori come CHILDREN OF THE MUSHROOM (procuratevi assolutamente la ristampa della spagnola Out Sider Rec. per poter ascoltare il loro unico 45 giri August Mademoiselle / You Can’t Erase A Mirror, vero capolavoro di psychedelia di ogni tempo e latitudine) ed infine l’oblio totale.
E’ incredibile il lavoro di veri e propri archeologi svolto da persone come Mike e Antonio rispettivamente della tedesca Gear Fab Records e della portoghese Golden Pavillon Records-
Il suono della band si può collocare tra i grooves psichedelici e soffici dei migliori MOBY GRAPE con punte più heavy che, non solo per l’uso dell’organo, fanno pensare ai primi STEPPENWOLF!
Difficile immaginare una band così?
E’ vero, ma ascoltando brani come Look At Me Girl o That’s When Happiness Began è chiaro che ci si trova di fronte ad un prezioso oggetto del desiderio per non parlare di perle più malinconiche come She Said She’s Leaving o la finale Trouble.
Descrivere a parole la sensazione che provo ancora oggi all’ascolto di dischi come questo è davvero arduo ma forse anche del tutto inutile.
Adoro scrivere di tutto questo anche se, in cuor mio, lo faccio più per me stesso che per chiunque altro possa leggere quanto scrivo.

Reverberend

venerdì 18 novembre 2016

UNHOLY - The Second Ring Of Power
(CD Avantgarde Music)


Finlandia: terra di laghi, renne, zanzare e bands metal. Il primo nome che mi viene in mente è quello dei Sarcofagus, i quali, parallelamente a quello che stava accadendo in UK (leggi NWOBHM) aprivano la via al suono pesante finnico con la loro meravigliosa musica intrisa di dark sound anni ’70 e schegge di acciaio. Da lì in poi è stato un susseguirsi di gruppi dediti ad ogni aspetto delle varianti metalliche, come per esempio il black finlandese, sensibilmente diverso (di sicuro più marcio e meno prodotto) da quello norvegese e svedese. A tal proposito come dimenticare nomi del calibro di Enochian Crescent, Horna o Satanic Warmaster.
Anche i gruppi di area doom sono sempre stati numerosi, alcuni di questi hanno raggiunto vette notevoli in questo campo (se state pensando ai Reverend Bizarre siete nel giusto). Ma un gruppo in particolare ha toccato vertici di inusitata e inaudita eccellenza: gli Unholy.
Autori di quattro venerati album tra il 1993 ed il 1999, tutti indistintamente da avere, e poi risucchiati nell’abisso dal quale erano sgusciati fuori. The Second Ring Of Power è, come dice il titolo stesso, il loro secondo lavoro e scrivo di questo solo per motivi di affezione, essendo stato il primo loro disco sul quale ho potuto mettere le mani; ma quello che scrivo vale anche per gli altri.
Pubblicato nel 1994 dalla nostrana (e benemerita!) Avantgarde Music, il secondo degli Unholy è un capolavoro doom di difficile catalogazione, tanti sono gli spunti d’interesse che vi albergano, a partire dalla strumentazione che comprende anche tastiere e violino.
La colonna sonora perfetta per riti bizzarri officiati in templi dimenticati, in un bad trip acido dove statue corrose e divelte sogghignano negli angoli bui… Rispetto all’esordio From The Shadows, il songwriting si fa più strutturato e la produzione più precisa, ma resta un alone di semi improvvisazione su tutti i brani; i tempi sono lenti e striscianti, si prova una sensazione tangibile di instabilità mentale grazie alla voce di Pasi Aijo impregnata di dolore e angoscia, dove le urla, i growls e i sussurri si dispiegano con grande effetto.
Dicevo della produzione: sicuramente potente e spaziale, con una separazione più netta degli strumenti, in particolare risalta il basso, mai troppo distorto e in grado di colorare le atmosfere dei brani con spunti notevolmente originali. Anche le onnipresenti tastiere contribuiscono a creare suggestioni da brivido mai banali, anzi. Procession Of Black Doom è forse il brano più emblematico, con la voce sofferente e rabbiosa e il suono delle chitarre a livelli notevoli di distorsione, eppure sottile, se capite cosa voglio dire.
Lady Babylon vede alla voce l’ospite Veera Muhli (anche alle backing vocals in altri brani) e si tratta della canzone più sognante e psichedelica del disco. Neverending Day ha un appeal funeral doom ante litteram ed il refrain finale cantato da Veera e Pasi all’unisono richiama alla mente addirittura i Christian Death di Gitane Demone.
Tutti i brani sono di altissima fattura, ma è impossibile non fare menzione d’onore per la traccia conclusiva Serious Personality Disturbance And Deep Anxiety: autentica summa filosofale degli Unholy. Ha un’introduzione lenta, jazzata e orientaleggiante, nella quale i vocalizzi folli di Pasi sembrano i deliri di un drogato in preda di visioni degne di Lovecraft; si sviluppa lenta e ondivaga piena di strane vibrazioni… Meravigliosa follia.
Un disco (e un gruppo) non per tutti, da centellinare come un prezioso liquore nell’inverno prossimo venturo. Un bizzarro monolite intorno al quale si radunano gli sciamani di culti perduti nella notte dei tempi.
Avvicinatevi con cautela, potreste non riuscire a farne a meno…

Edvard von Doom

giovedì 17 novembre 2016

LE ONDE ELETTRICHE DEI MISTICI MODERNI

Nel marasma del modernismo globalizzato nel quale ci troviamo può succedere che nascano cose intrinsecamente interessanti come, per esempio, degli ibridi musicali pensati dalla generazione che meglio riesce ad assorbire ed interpretare tutti gli innumerevoli input che la nostra epoca offre.
I giovani di oggi riescono, di fronte alla disponibilità pressochè totale di un oceano di musica, a pescare a piene mani dal passato inserendo perfettamente ogni intuizione in un contesto decisamente attuale.
Probabilmente hanno dalla loro parte la consapevolezza di poter/dover assorbire tutto lo scibile musicale, come del resto qualsiasi altra cosa, con una velocità diversa dettata principalmente dall’avvento di una tecnologia (il world wide web o più comunemente la rete) che permette sempre il qui ed ora con una simultaneità sino ad oggi sconosciuta.
Ad onor del vero, sarà per la mia età (quest’anno sono cinquanta), ma ho sempre, sino ad ora, mal sopportato il melting pot di vari generi (anche se a tempo debito, anni novanta, mi ero appassionato a certo crossover fuori dagli schemi) soprattutto se in questi sono presenti, in ogni possibile forma, i miei amati sixties: preferivo le bands filologiche perché nulla poteva essere meglio di quanto fatto in quella magica epoca ed era quindi inutile pensare di attualizzare una formula senza tempo!!
Beh, oggi sono cambiato forse anche a causa di quanto appena esposto, quindi ho iniziato ad ascoltare in maniera più flessibile quanto per me una volta non era fondamentalmente concepibile a causa della mia ristrettezza mentale, devo ammetterlo.
Tutto il mercato indipendente è stato certamente smosso, negli ultimi dieci anni, da figure centrali e pionieristiche come quelle del giovane Ty Segall (nato a Laguna Beach, USA nel 1987) che è ormai giunto al suo ottavo (?!?) album e del più attempato John Dwyer con i suoi Oh Sees (gli albums sono dieci ad oggi!!) ed i suoi progetti paralleli dove tutti i generi vengono mischiati e fagocitati, seguendo il loro background fatto di ascolti dei più disparati (tipici della generazione dell’immediata disponibilità totale o, se preferite, dell’usa e getta) che si traspongono nel loro percorso musicale ed artistico: lo specchio dei tempi moderni.
E’ così che anche tutti i generi musicali noti (siano essi garage, psychedelia, new wave, punk, post-punk….) hanno progressivamente assunto connotazioni differenti in funzione di una rinnovata attitudine al, diciamo così, meticciato.
Il primo colpo di fulmine istantaneo mi era successo, ricordo nitidamente, con l’ascolto dei Crystal Stilts, bands di Brooklyn (New York) dedita ad una formula molto interessante di ibridazione sonora.


Formatisi nel 2003 hanno esordito sulla lunga distanza soltanto nel 2008 con Alight Of Night, ovvero un esordio che amalgamava con disinvoltura sonorità ricche di reminiscenze debritrici dei Joy Division di Unknown Pleasures  (in primis la profonda voce di Brad Hargett, il carismatico leader) con l’aggiunta di echi e distorsioni chitarristiche di pura marca Jesus & Mary Chain (Psychocandy, naturalmente), ritmiche sempre cadenzate e melodie completamente immerse in un climax sixties in rigorosa bassa fedeltà.
Il successivo In Love With Oblivion del 2011 prosegue egregiamente sulla stessa linea muovendosi maggiormente in direzione pop! Con il terzo Nature Noir del 2013 hanno immesso, nel già poliedrico sound, anche marcate influenze di Byrds con un frequente uso del caratteristico jingle-jangle che li vede orientati verso lidi folk-rock ed un suono più pulito senza perdere nulla in freschezza.

Onestamente non sono mai andato a cercare bands simili a loro sino a quando mi è casualmente capitato di comprare Relax, secondo splendido album degli Holy Wave nel 2014.

Gli Holy Wave provengono dal giro di Austin legato alla Reverberation Appreciation Society (la loro etichetta discografica) ed ai più noti Black Angels. Anche loro sono un bellissimo ibrido di new wave (quella buona degli anni novanta che parte da certe cose di scuola 4AD ed arriva a lambire certo math-rock più morbido), fortissimi echi sixties, soprattutto per quanto riguarda le melodie e le parti vocali, che rimandano direttamente a quel magico periodo, la ritmica più orientata verso una metronomica matrice di origine krauta anni settanta e certo punk, primi anni ottanta, non scalfito ancora da nessun spasmo hardcore.
Con il nuovo Freaks Of Nurtur, il loro flessuoso sound ha spiccato il volo verso lidi ad alto tasso allucinogeno perfettamente riscontrabile già dall’opener She Put a Seed In My Ear, leggiadra e sicura con ritmica sincopata e voce altamente evocativa.
L’indimenticabile melodia catchy di Western Playland si incolla in maniera indissolubile nella nostra memoria e ci accompagna alla successiva, dai forti richiami di garage moderno, You Should Lie.
Come brano manifesto possiamo prendere California Took My Baby Away, dove un paesaggio sonoro lieve e delicato di chitarre dolcemente stratificate ci avvolge come una nebbiosa mattina sulla spiaggia e la voce armoniosamente intensa ci accarezza nel ricordo di memorie ancora nitide e presenti.
Un radioso futuro li attende se continueranno a svilupparsi in questa interessante direzione.
Dalla soleggiata California provengono invece i molto promettenti Levitation Room che con il loro primo album Ethos (che contiene quattro brani già precedentemente apparsi nel loro già riuscitissimo mini LP di esordio dell’anno scorso intitolato Minds Of Our Own) riescono a creare una splendida tessitura di soavi e sognanti atmosfere dreamgaze (vale a dire shoegaze iterativo ma dolce ed etereo) con profonde radici sixties immerse nella psychedelia più rarefatta con chitarre trattate e fluttuanti e melodie sempre sugli scudi.
Album che riesce in mezz’ora tirata, con forti inserimenti di garage, diluito in acidissime spirali di chitarra (Cosmic Flowers e la magnifica Loved), a non sbagliare un colpo inserendo brani moody da manuale come Reason Why o There Are No Words, quest’ultimo dai forti richiami dei migliori Seeds, con il fuzz egregiamente somministrato, nenie orientali come Plain To See, lenta e sognante, ed anche Till You Reach Your Last Breath e la finale Crystal Ball dove i delicati arpeggi di chitarra e la voce modulata e sensuale ci invitano ad entrare nel loro magico mondo catapultandoci in un caleidoscopio pazzamente colorato.


Ora si fa’ un salto a Melbourne (Australia) dove si sono formati i fantastici Murlocs, giovanissma band che ha assimilato perfettamente la lezione di conterranei maestri sixties come Master Apprentices (prendete come esempio l’immortale brano Wars Or Hands Of Time presente sul loro omonimo debutto datato 1967) e, vivendo nel presente, ha saputo diluire il suono in un molteplice gorgo di sinuosi riverberi zeppi di riferimenti anni novanta (new wave, post punk, punk, dream pop, shoegaze………..).
Questa band è veramente unica per attitudine e sicurezza dei propri mezzi: in loro la matrice garage / R & B è decisamente posta in evidenza (il suono è molto in linea con le produzioni del periodo 1965/1966) ma la vera particolarità è la voce di Ambrose Kenny-Smith, fragile ed infantile, con un trasporto ed una presenza così peculiari da ammaliare chiunque.
Anche nel loro caso le melodie hanno un’importanza cruciale; vedi gli illuminanti esempi distribuiti nei loro, ad oggi, due albums, ripettivamente Loopholes (2014) ed il nuovo Young Blindness (2016).
E’ un vero piacere lasciar scorrere brani come la sognante e sospesa Control Freaks , tra riverberi elettrici ed armonica avvolgente, come anche Paranoid Joy, completamente fuori dal tempo, persa in una dimensione psychedelica caratterizzata da innocenti visioni adolescenziali (entrambe tratte dal primo Loopholes).
Il recente Young Blindness li conferma a livelli di assoluta eccellenza, distribuendo le intuizioni dall’iniziale incalzante Happy Face, proseguendo con la cadenzata Young Blindness dove è la splendida voce filtrata a guidare le danze sino ad arrivare alla lenta ed ipnotica Rolling On, densa di aromi peace & love ed alla conclusiva Reassurance, più pop ed evocativa.
Rimanendo sempre nei dintorni di Melbourne e precisamente a Geelong non possiamo esimerci dal citare i Frowning Clouds che dalla posizione filologica del primo album del 2009 (Listen Closelier) contenente anche una fantastica cover di Do Like Me degli indimenticati Uncalled For, anno 1967, si sono progressivamente spostati tra le pieghe allucinogene del secondo album del 2013 (Whereabouts) sino ad arrivare, nel 2014, alla  perfetta deriva psychedelica del terzo Legalize Everything (il titolo dovrebbe rendere chiaro il concetto).
Tra le misteriose ed affascinanti “mille luci di New York” sono nati e cresciuti invece i Mistery Lights, vero e proprio oggetto non identificato catapultato nell’attuale panorama musicale odierno da una dimensione parallela.
Dopo un ancora acerbo debutto nel lontano 2009 (Teenage Catgirls And The Mistery Lightshow) ed un altrettanto acerbo seguito, disponibile esclusivamente in cassetta, nel 2015 (At Home With The Mistery Lights) sono approdati al recente e prodigioso manifesto rappresentato dall’omonimo terzo album ufficiale registrato totalmente in analogico nei vintage studio della Daptone Records, House of Soul!
Provate ad immaginare una band con un suono filologico (1965/1966) ma un’attitudine figlia del periodo post-punk migliore (Killing Joke in primis) o, se preferite immaginate una band come, per esempio, i succitati Killing Joke che realizza un album di covers dei Chocolate Watchband o Music Machine.
L’album in questione è una sorprendente summa del migliore garage punk odierno con un’attitudine angolare e spigolosa tipica di certo math-rock (Don Caballero), cosa ben udibile sin dalle iniziali squilibrate evoluzioni delle scorribande elettriche di Follow Me Home dove la performance del vocalist, chitarrista e frontman Mike Brandon è veramente strepitosa. Credetemi, nel genere tra le cose migliori oggi in circolazione.
Se volete trovare un’attualizzazione dei suoni che abbiamo amato ma che non appartengono più, per forza di cose, alla nostra epoca, potete senza timore di smentita, cercarla in nuove bands come quelle che ho provato a proporvi tra le tante che si muovono in questa direzione: l’unica possibile oggigiorno?
Certamente no, ma una valida alternativa per cercare di avere una visione ottimistica di ciò che ci attenderà!

Fabio Reverberend Avaro