Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

venerdì 30 settembre 2016

KAT ONOMA - Far From The Pictures
(CD Chrysalis)


Non conoscevo affatto i Kat Onoma, prima di mettere le mani (e soprattutto le orecchie) su questo disco affascinante. Five-piece band francese, molto conosciuta in patria ma, evidentemente, non altrettanto al di fuori dell'Esagono. Questo è il loro quarto album, pubblicato nel 1995 e, fidatevi, è bellissimo!
Chi, come il sottoscritto, ha amato alcune creature d'oltralpe nei primi anni '80 (un nome su tutti: Marquis De Sade) ritroverà quello spirito e quelle sonorità cupe e spigolose. I Kat Onoma cantano di angst esistenziale in maniera sensuale e stilosa, grazie anche alla voce profonda del cantante Rodolphe Burger: una specie di Leonard Cohen virato post-punk.
Intrigante fin dal packaging (jewel case viola trasparente e booklet con testi e foto del gruppo immersi nel rosso) questo disco racchiude al suo interno una musica le cui coordinate si situano da qualche parte tra i Joy Division e i Roxy Music, con in più una produzione (ben focalizzata) e dei suoni tipicamente nineties.
Sono in tutto 14 brani, tutti veramente interessanti, ma segnalerei l'iniziale Artificial Life, Video Chuck e Reality Show (nella quale viene campionata la batteria di When The Leeve Breaks dei Led Zeppelin!) tra le migliori. 
Degne di nota anche le liriche, intrise del classico spleen del quale i nostri cugini francesi sono esponenti principi. Insomma, bando alle ciance, questo è un album da riscoprire e ascoltare a nastro, come mi capita spesso ultimamente.
Intanto fatevi un giro sul tubo e guardate di che pasta sono fatti i Kat Onoma!

Edvard von Doom

CURTAINS OF NIGHT - Lost Houses
(CD Courtains Of Night)


Sono arrivato a conoscere questi strepitosi CURTAINS OF NIGHT grazie alla nuova (dal 2012) creatura di Nora Rogers, ovvero i SOLAR HALOS (recuperate assolutamente il gotico e maestoso gorgo di sludge rock contenuto in Migration, esordio lungo targato 2014 via Devouter Records).
Ma facciamo un passo indietro, una volta tanto, ed andiamo a cercare dove sono le radici degli incredibili SOALR HALOS, una band che sembra uscita da un racconto di Flannery O’Connor o di un William Faulkner più fosco e plumbeo!
I CURTAINS OF NIGHT sono mostruosi; sembrano un condensato di DEAD MEADOW, SLEEP, BLACK SABBATH sino ad arrivare ai BUZZ O’VEN più rabbiosi.
Una creatura tentacolare nelle salde mani di Nora Rogers l’indiscussa leader della band: la voce della Rogers si avvicina ad un pugno nello stomaco, avendo come paragone soltanto le cose più sofferte degli EYEHATEGOD. Non una band per tutti, avrete inteso.
Se amate l’America, quella raccontata dai poco raccomandabili personaggi che abitano le strade blu, quelle non segnate sulle cartine geografiche ufficiali, troverete pane per i vostri denti.
Storie di ordinari perdenti, sconfitti dalla vita: persone nate semplicemente dalla parte sbagliata.
Nessuno è innocente.
Nora Rogers sembra costretta a sanguinare, letteralmente, da una vita a senso unico: il senso sbagliato!
I sei brani che compongono questo E.P. lungo (29 minuti realizzato nel 2009) trasudano southern-sludge-rock da tutti i pori.
Il suono è devastante, quadrato ed, anche se fatto in casa, caldo e voluto con parti vocali rabbiose e folli, ai limiti della pazzia pura.
Così DEVE essere, la rappresentazione perfetta dei nati perdenti dispersi nel grande nulla americano, dimenticati da tutto e da tutti, senza alcuna speranza, perché la speranza non è certo presente in alcuna forma in questi strazianti suoni distorti e grezzi.
Il clima asfissiante che si respira in Lost Houses traspare immediatamente dai fischi degli amplificatori che aprono Living Forest sommersa da monotoni riffs e ritmi claustrofobici ed un’elettricità iper satura che riempie ogni spazio.
Inizia Golden Arrows ed è ancora la saturazione elettrica a prendere il sopravvento su tutto, ma qui il clima è ancora più scuro e lento: lentamente si scende nell’inferno che può essere questa nostra vita con la batteria di Lauren Fitzpatrick che incalza e sorregge il muro elettrico.
L’apertura di Lost Houses ancora ci ipnotizza con un feedback di distorsioni che inaugura le isteriche elucubrazioni psicotiche di Nora Rogers ed i suoi deliri.
Rabbia pura, cieca.
La distruttiva Total Domination ci fa letteralmente arretrare in un angolo, protetti dai muri dietro di noi: l’incedere tribale è mozzafiato ed affoga in un mare di riffs chirurgici e senza scampo.
La formula viene riproposta pedissequamente in tutti i brani, con sfumature leggermente differenti (più crepuscolari nella finale Gather The Horses)  ma la sostanza rimane sempre inalterata per non trattenere nulla: tutta la rabbia e la disperazione di una generazione persa emergono prepotentemente da ogni momento di questo vero e proprio tormento elettrico.
Credetemi, difficile trovare di meglio se volete perdervi nell’America che nessuno vuole raccontare per paura di aprire una voragine difficilmente colmabile.
Nora Rogers è letteralmente una forza della natura.
Ed ora possiamo aspettare con impazienza e curiosità nuovi parti del mostro SOLAR HALOS sicuri che alla fine del tunnel ci attenderà solo buio senza silenzio e pace.

Buon ascolto miei cari.

Reverberend

Sorry, no links available!
KAYHAN KALHOR - Hawniyaz
(CD Harmonia Mundi)


HAWNIYAZ in curdo significa “tutti abbiamo bisogno di tutti gli altri, ognuno di noi è qui per l’altro”.
E’ fondamentale capire questo per sciogliersi nel magico flusso sonoro che questi quattro musicisti sono riusciti miracolosamente a trovare improvvisando senza prova alcuna nell’estate del 2012 durante il Festival di Morgenland in Osnabruck dove si è soliti assistere ad un’affascinante melting-pot tra tradizione culturale del medio-oriente ed avanguardia, jazz e rock.
Il concetto di barriera viene totalmente abbattuto in onore di una libera interpretazione di ogni differente esperienza e percorso artistico.
Nonostante quest’attitudine, è realmente raro vivere l’esperienza di un momento particolare in cui una performance diventa straordinaria: fragilità, forza, bellezza si fondono formando una cosa unica ed irripetibile.
L’apertura mentale dei musicisti e la loro straordinaria versatilità permette di raggiungere momenti di incredibile intensità emotiva, profonda introspezione e purezza spirituale paragonabile esclusivamente ad un evento miracoloso.
E’ questo che accade durante l’ascolto di questo omonimo CD.
Si rimane come ipnotizzati mentre la trascendenza dei suoni cristallini ci accompagna attraverso secoli di storia senza soluzione di continuità-
Magia pura nella sua essenza primordiale.
Gli stessi strumenti utilizzati, come il Kamanchech (KAYHAN KALHOR) o il Tenbur (CEMIL QOCGIRI) si perdono in un affascinante viaggio che ci porta sino all’undicesimo secolo nei meandri dell’Asia centrale (Armenia, Azerbaijan, Turkmenistan) o tra i liutai in Mesopotamia, perdendosi letteralmente nelle profonde tradizioni turche o nel Kermanshah in Iran.
E’ un viaggio che ci conduce alle porte dell’infinito dove tutto è possibile, pensando a quello che si potrebbe fare o soltanto immaginare fondendo le tradizioni e le differenze in una visione globale fondata nel rispetto di percorsi differenti ma certamente complementari, come dimostra HAWNIYAZ.
Certo, con la frenesia ed i ritmi che la società occidentale impone non è facile lasciarsi incantare da tutta questa magia, ma il gioco è proprio questo: prendersi il proprio tempo.
Alla ricerca del tempo perduto!
Per ritrovare e riprovare esperienze importanti attraverso suoni apparentemente lontani ma profondamente interiori che appartengono a tutti noi, alla vita stessa ed al suo significato più puro.
Certo richiede uno sforzo anomalo per la maggior parte di noi ma senz’altro ripagato con le vette emotive, l’istintività e la sensibilità assolutamente fuori dall’ordinario che questi musicisti sono in grado di trasmetterci.

Un’ora con noi stessi ed altri mondi che ci osservano da vicino e raggiungono il nostro cuore in una commovente esecuzione di estatica energia sonora senza fine.

Reverberend

martedì 27 settembre 2016

T.S.O.L. - Dance With Me
(LP Frontier Records)


Durante il biennio 1981-82 negli USA, in particolare sulla west coast, deve essere successo qualcosa. Qualcosa di malsano. Nell’allora fertile sottobosco hardcore punk iniziarono a spuntare fiori dai colori oscuri e inquietanti, gente come Christian Death, 45 Grave, Misfits, Sleepers, Red Scare (ne ha parlato il REV qualche post addietro) e, appunto, T.S.O.L. (acronimo di True Sounds Of Liberty). La comune radice di questi gruppi fece si che ad un certo punto si iniziò a parlare di Death Rock, forse anche per distinguerli dal post punk a tinte fosche che parallelamente si sviluppava nel Regno Unito e in Europa continentale.
I T.S.O.L. in realtà produssero un solo lavoro ascrivibile a questo genere (e forse sarebbe più corretto parlare di dark-punk): Dance With Me, ma si tratta di un vero capolavoro.
Band incostante ed ondivaga, i T.S.O.L. provenivano dalla stessa scena di gruppi come gli Adolescents o i Black Flag, come testimonia il loro mini LP di esordio pubblicato dalla Posh Boy Records, ma a giugno del 1981 l’uscita di questo album rivelò una mutazione a dir poco sbalorditiva.
Mutazione che non sarà l’unica in tutta la carriera del gruppo: il successivo Beneath The Shadows flirterà con la psychedelia di matrice doorsiana e nel prosieguo pubblicheranno dischi (quasi mai degni di nota) persino di squallido hard rock. Ma per qualche miracolosa congiunzione astrale Dance With Me resterà negli annali della storia, com’è giusto che sia.
La formazione è composta dal cantante Jack Grisham (attenzione: sul disco appare come Alex Morgan), dal chitarrista Ron Emory, dal bassista Mike Roche e dal batterista Todd (Francis Gerald) Barnes. 
I quattro dovevano attraversare uno stato di grazia irripetibile, perchè già dall’opener Sounds Of Laughter è subito chiaro che ci si trova al cospetto di un disco clamoroso. La batteria è tonante e quasi tribale, il basso ha un suono minaccioso e fisico che fa paura e le folate sferraglianti, eppure adamantine della chitarra costruiscono un degno tappeto per la voce di Grisham: epica, cattiva e potentissima. Una vera gemma! La successiva Code Blue è una delle canzoni più censurate di sempre ("I wanna fuck the dead…" e la cosa impressionante è che risulta dannatamente credibile il buon Grisham, quando lo urla nel microfono…) velocissima, brevissima e crudele: un inno necro-hardcore di eccelsa fattura. The Triangle è la più lunga canzone di un disco assai breve (il totale non arriva ai 26 minuti) e si muove su sentieri lugubri e caligginosi, con una meravigliosa sfuriata centrale di classico punk rock abrasivo. 80 Times e I’m Tired Of Life sono sferzate hardcore ma l’atmosfera resta sempre cupa e minacciosa, mentre la fine della prima facciata è appannaggio di Love Story, dove la chitarra di Emory prende tinte quasi psychedeliche. Bellissima.
Prima della B-side è bene sottolineare che la sezione ritmica, soprattutto il basso di Roche, è veramente una delle più fantasiose ed al contempo aggressive di tutto il punk americano e contribuisce notevolmente all’economia del disco con una quantità di idee incredibile. Si ricomincia con Silent Scream, forse la mia preferita, una meraviglia gotica di rara intensità (non l’ho ancora detto, ma un altro degli innumerevoli pregi di questo album sta nelle fantastiche liriche, perfettamente calate in un immaginario gotico / romantico, che Jack Grisham interpreta in modo magistrale dall’inizio alla fine), lenta, evocativa e oscura. Si prosegue con Funeral March, dove Ron Emory grattugia letteralmente la sua chitarra per uno dei pezzi più aggressivi e fulminanti dell’album. Die For Me e Peace Thru Power sono spigolose, urticanti, ma ancora una volta stupisce la qualità del suono di chitarra di Emory: ricco di preziose rifrazioni caleidoscopiche, ma tagliente come un rasoio. Si chiude in bellezza con quella che, almeno a mio modo di vedere, è LA canzone per eccellenza di tutto il dark punk terracqueo, la title-track: plumbea, minacciosa, vorticosa (detto tra noi: se riuscite a rimanere fermi durante l’ascolto, avete un problema), officiata da Grisham con una malvagità che sembra uscire dalle casse; è un brano di una potenza devastante e mette la parola fine ad un lavoro che invece vorresti non finisse mai.
Ovviamente si tratta di un disco da avere assolutamente; l’ultima ristampa risale al 2007 e quindi dovrebbe essere abbastanza facile da reperire. In qualunque modo, metteteci sopra le mani.
Non ve ne pentirete.
Mi rendo conto solo ora che sono passati 35 anni da quando ho ascoltato Dance With Me per la prima volta! E ancora oggi resta uno dei miei ascolti preferiti. Un vero miracolo!

Dance with me my dear, on a floor of bones and skulls…

Edvard von Doom

domenica 25 settembre 2016

DARKHER - Realms
(CD Prophecy Productions)


E’ facile catalogare superficialmente come classico doom il progetto solista di Jayn H.Wissenberg, carismatica cantautrice che dietro una fragile eleganza è riuscita a creare un potente torrente di atmosferico doom, occulto e plumbeo, uguale unicamente a se’ stesso.
La voce esile e serena ricorda un fantasma di Beth Gibbons (PORTISHEAD), evocativa ed oscura allo stesso tempo.
Realms è il primo disco ed immediatamente pone il progetto in una terra sconosciuta, a cavallo tra le prime cose gotiche inglesi come Anathema, PARADISE LOST e MY DYING BRIDE che fondevano certo death doom metal con tentazioni progressive, dark ed anche art-rock.
Le origini, Inghilterra, West Yorkshire, sono evidenti già dall’iniziale crescendo di Spirit Waker nella quale tra bordoni di chitarre stratificate (Shoegaze ambientale??) si erge la voce, nitida e struggente, che avvolta da arpeggi celestiali introduce il climax del brano, sospeso, in evanescenti spirali di tribale ed ossianico rock con maestosi riffs geometrici di chitarra.
Il sottile velo acustico di Hollow Veil  sorprende e conduce le spettrali parti vocali all’inizio di un percorso più tortuoso e scosceso, verso gli inferi…
DARKHER costruisce magistralmente nubi di tempesta elettrica con una grazia ed un’eleganza fuori dal comune.
Sono propriamente i contrasti ad emergere come caratteristica dominante dell’intero progetto: sempre modulati, nitidi e senza sbavature (come nella perfetta Moths).
L’atmosfera diventa decisamente più claustrofobica nel lento maelstrom di Wars dove la magica alternanza tra marmoreo splendore esoterico (bordone di sintetizzatori in evidenza) e il profondo richiamo spirituale della voce, sempre padrona della scena, raggiunge il suo zenith.
Affascinanti le ieratiche inflessioni di The Dawn Brings A Saviour che ci preparano per la lenta apoteosi delle due parti in cui è divisa Buried : voce recitante ed un soffio di sintetizzatore con sibili in slow motion che incalzano la processione alla quale si aggiunge una misterica viola cha abbraccia la strabordante potenza della cattedrale elettrica di chitarra.
Con gli occhi chiusi si materializzano i circoli letterari della Londra di metà settecento, dove Thomas Gray partorisce l’intensa riflessione sulla morte e la dipartita di una persona cara (Elegia scritta in un cimitero campestre del 1751).
Anche il celebre poeta ha costruito la sua carriera creando un personale contrasto tra la tradizione classica ed uno slancio assolutamente moderno (cercando nuovi argomenti e modi d’espressione) diventando uno dei precursori riconosciuti dello stile romantico.
Ecco il punto: nel suono limpido, pulito e moderno di DARKHER è sempre presente tanto romanticismo che circonda con un’aura d’altri tempi la poesia di Jayn e la aiuta a confluire in un flusso di assuefazioni sepolcrali.
Il fascino di questi suoni è assoluto e magnetico…

Fatevi irretire senza alcuna esitazione…

Reverberend

mercoledì 21 settembre 2016

GABOR SZABO - Dreams
(LP Skye Records)


A volte capita per puro caso di imbattersi in alcuni dischi e rimanerne immediatamente affascinati sino a non poter fare a meno di condividere tutta la bellezza che emanano con quanta più gente possibile.
Con GABOR SZABO ed in particolare con questo disco mi è capitato proprio così!
Di origine ungherese, affascinato dalla musica jazz sin dall’adolescenza, studia in America presso la prestigiosa Berklee School of Music di Boston e milita in seguito (dal 1961al 1965) nel quintetto di CHICO HAMILTON dove si fa letteralmente le ossa.
La sua capacità maggiore è quella di fondere, con la sua chitarra, in maniera assolutamente personale svariati stili musicali quali il jazz, il pop, il rock (l’uso misurato di feedback ed altri effetti tipici) e la musica tradizionale dell’Ungheria.
Proprio per questa sua peculiarità non venne (morì nel 1982) mai accettato completamente dai puristi ottusi del jazz classico.
Una figura di outsider quella di GABOR SZABO che, dopo aver registrato alcuni albums su IMPULSE! (i primi sei) fonda con CAL TJADER e GARY McFARLAND una propria etichetta (SKYE RECORDS) con la quale poter essere completamente indipendente.
Tra i primi frutti di questa coraggiosa scelta figura Dreams, del 1968, con il quale il protagonista fonde in maniera mirabile tutti gli stili che gli sono congeniali ottenendo un risultato esemplare!
La sua musica ha sempre un sapore malinconico e struggente (sentite Song Of The Injured Love, dove la progressione melodica ti tocca sino alle lacrime raggiungendo una giostra di arpeggi più gioiosi sospesi magicamente nel nulla) e la melodia colpisce per la sua perfetta semplicità frutto del genio nella sua più pura essenza (The Fortune Teller).
Quando poi, come nel caso dell’immensa The Lady Of The Moon, vero apice di un disco meraviglioso tutte le barriere vengono spontaneamente sciolte in virtù di un flusso sonoro che visita in maniera approfondita gli elementi principali della musica di tradizione ungherese (gipsy jazz?!?) che si fondono perfettamente con il jazz classico di quegli anni e con il miglior rock aperto (leggasi psychedelico, pensando al beatlesiano Revolver) i risultati emozionano come poche cose.
Al solito, una figura di culto come la sua è appannaggio di pochi appassionati, oggi come allora.
Non è importante di fronte a tanta bellezza, anzi.
Spero che queste mie poche parole siano uno stimolo, almeno per i pochi che le leggeranno, per conoscere un vero maestro, uno dei tanti, che la storia ingloriosamente ha inghiottito per sempre.
Buon ascolto miei cari.

Reverberend

TRUE WIDOW - Avvolgere
(CD Relapse)


I TRUE WIDOW sono una band anomala.
Provengono da Dallas (Texas naturalmente) esistono dal 2007 e, con il tempo, hanno saputo articolare un torrido e fluido flusso sonoro secco come la terra che ha dato loro origine.
Provate ad immaginare una scarna, grezza e lenta cerimonia un po’ come la carcassa rock trascinata dai primi LOW (sto pensando a dischi come il loro terzo The Curtain Hits The Cast del 1996) ai confini della realtà, ai limiti dell’abisso.
Ecco, i TRUE WIDOW sono come una sfocata istantanea di quello scheletro di suono: costruiscono i brani con un sostanziale minimalismo che finisce per essere, oltre che il loro marchio di fabbrica, anche il loro punto di maggior interesse.
Dicevo un suono scarno ed essenziale ma nitido e pesante, sostenuto da una ritmica elementare accompagnata da una voce chiara, in primo piano e, soprattutto in episodi come Theurgist, caratterizzata da una forte componente melodica che riesce a tatuarne a fuoco ogni spunto cruciale.
Dal precedente, già ottimo, Circumambulation (2013) la Relapse Records si è presa cura di loro avendo capito che bisognava aiutarli e sostenerli perché il loro sound è unico ed estremamente interessante: loro stessi si definiscono come stonegaze (un perfetto incrocio di stoner e shoegaze).
Questo nuovo album stupisce sin dall’inizio con una cerebrale progressione di riffs: Back Shredder, con la chitarra come una lama affilata che penetra nella carne con un feedback lancinante, la ritmica si trascina ipnotica e la voce come filtrata ci arriva da un’altra dimensione con richiami melodici all’interno di una caverna immaginaria. Quattro minuti e venti secondi per mettere le cose in chiaro.
Nella massa di volume impressionante della già citata Theurgist: come non scorgere tra le macerie il fantasma dei JOY DIVISION?
F.W.T.S.L.T.M. ed il suo incedere lento ed apatico lottano con una voce più solare che si integra perfettamente nella coltre ritmica di retaggio post punk (KILLING JOKE del primo, e migliore, periodo) in collisione con i NIRVANA del primo slabbrato Bleach.
Gli strappi elettrici di The Trapper And The Trapped e gli esili echi delle doppie voci di Dan Phillips e Nicole Estill che si cercano nella tempesta di frustate chitarristiche dominano il brano con estrema maestria.
Ancora i JOY DIVISION ed i KILLING JOKE catapultati nell’era post moderna della riproducibilità tecnica totale sono le invadenti ombre di O.O.T.P.V. che si innalza con bordate elettriche e con la voce evocativa e melodica ad altezze impensabili.
I TRUE WIDOW sono riusciti a fagocitare la miglior new wave e post punk e a scioglierli nella disumana processione della metropoli odierna: nell’oscuro e claustrofobico tunnel del più profondo ed assoluto buio.
Quando inizia To All That He Elong è una riverberata ed imperfetta chitarra acustica che ci guida nella fitta oscurità e si smarrisce dopo pochi accordi primali interrotti lasciando spazio all’incedere devastante di Sante dove è ancora la chitarra elettrica a frastornarci con gli echi dei piatti della batteria metronomica e ripetitiva posti in primo piano.
Il clima asfissiante e senza speranza ci accompagna sino alla fine seguendo i lamenti di Grey Erasure e spegnendo l’ultima fievole luce in lontananza.
Questa è la musica ed il FANTASTICO rumore controllato dell’era contemporanea dove tutto, ma proprio tutto, non ha più alcun scampo.
Ci si abbandona, sfiniti, nel tormento di What Finds Me dove i detriti del rock sono protetti dalla voce di Nicole Estill in primo piano e da quella di Dan Phillips, filtrata, che le rimane cucita addosso come una cicatrice tra rumorosi sibili ellittici in dissolvenza.
IL ROCK DI OGGI FA PAURA…

Reverberend

lunedì 19 settembre 2016

22-20's - Got It If You Want It
(2CD Yoshimoto R And C)


I 22-20’S sono stati ingiustamente catalogati nella massa informe di bands brit-pop di inizio anni 2000.
Certo, sono inglesi, vengono da Sleaford nel Lincolnshire ma lo la loro musica è del sano e genuino blues-rock, proprio come si faceva una volta. Se vogliamo le somiglianze con certo brit-pop (quello buono)sono parecchie perché con brit-pop si intendeva/intende nient’altro che rock inglese con sfumature variegate che possono essere a volte più pop, a volte più rock (nel senso più elettrico del suono)con influenze delle più disparate all’interno.
Ma, nel nostro caso, già il nome risulta significativo: 22-20’s è un brano infuocato di pre-war blues firmato dal diavolo in persona, ovvero SKIP JAMES, che come diceva il saggio JOHN  FAHEY (che era letteralmente ossessionato dal dimenticato bluesman in questione) era uno che andava dritto al nocciolo della questione; era un vero e proprio macellaio del blues e nella vita non è stato certo da meno.
Quindi il riferimento non è proprio casuale ma profondamente voluto ed inequivocabile: i 22-20’S sono quattro ragazzi venuti dalla periferia inglese con tanta voglia di suonare blues elettrico con un orecchio teso alla loro Inghilterra sempre presente nella pronuncia e soprattutto nel cantato del carismatico leader Martin Trimble.
Hanno esordito con un anonimo primo album nel 2004 che si è letteralmente perso nella massa di uscite del periodo. Dopo aver ottenuto un discreto successo in Giappone (?!?), come testimonia il live del 2005 pubblicato dalla EMI giapponese nel 2005 si sono presi un lungo periodo di pausa (durato sino al 2008) per sbandamenti interni di vario genere e sono tornati nel 2010 con lo splendido secondo album Shake/Shiver/Moan che però, nonostante la freschezza dei brani, non ha dato il risultato di vendite sperato e quindi non è stato supportato come dovuto.
I ragazzi insistono e riescono a preparare ed a pubblicare, solo per il mercato giapponese, il disco, veramente bellissimo, del quale vorrei parlare: Got It If You Want It.
Pensare che per esigenze di mercato questo disco non è stato minimamente supportato e promosso (non è MAI stato realizzato fuori dal Giappone) è un vero e proprio delitto per qualsiasi appassionato di sano rock.
Procuratevi assolutamente l’edizione doppia con un bonus disk con sorprendenti versioni acustiche, completamente diverse, scarne ed essenziali più roots-folk-blues ed alcune tracce live molto buone anch’esse.
Il disco principale è composto da dodici pezzi originali più una bellissima versione demo di Pocketful Of Fire già presente nella scaletta ufficiale del disco.
Si inizia con la suadente voce di Martin che guida sapientemente il flusso elettrico della chitarra su un tappeto percussivo insistente e preciso sino ad arrivare al nocciolo di Bring It Home con la sola voce che intona una melodia ricca e poi la chitarra che carica di fuzz ondeggia con un assolo portentoso.
La cavalcata elettrica di Heart And Soul, sulle capienti ali di un moderno blues con riferimenti agli anni d’oro (1966-1967) che ci spinge in un turbinio ritmico con forti melodie pop.
I brani sono tutti molto diretti e semplici nella struttura: la classica canzone con strofa ritornello strofa e assolo al fulmicotone. Non sbagliano un colpo sapendo come costruire un brano da ascoltare ripetutamente e da memorizzare per lungo tempo.
Non sono, più precisamente non erano (oggi sono definitivamente sciolti), una band comune i 22-20’S nient’affatto, credetemi!
Non fateli scivolare in un eterno oblìo che proprio non si meritano.

Fuori dal gregge, una pecora nera come non se ne vedeva da tempo.

Reverberend

THE WARLOCKS - Songs From The Pale Eclipse
(CD Cleopatra Records)


I WARLOCKS ci hanno accompagnato lungo il corso degli ultimi diciotto anni (?!?), iniziando alla corte di Re Greg Shaw e della sua BOMP! Records passando per le maggiori indie labels del pianeta (dalla Birdman alla City Rockers, dalla Tee Pee alla Evangeline…) ed hanno avuto anche l’opportunità di un periodo major su Mute Records durato l’arco di due albums (Phoenix e Surgery, rispettivamente nel 2002 e 2005) che però non ha sortito l’effetto di vendite sperato!
D’altra parte i WARLOCKS sono una band non facilmente vendibile, hanno sempre seguito l’istinto del loro carismatico ed indiscusso leader nella figura del chitarrista, cantante e maggior compositore quale è Bobby Hecksher.
Si sono sempre mossi in territori psychedelic rock sino a lambire spazi di drone music (nient’altro che psychedelia più dilatata e mantrica) senza alcuna sbavatura lungo tutto il loro percorso con ormai otto albums più che buoni.
Oggi ci troviamo a parlare di una raccolta di brani registrati nel corso degli ultimi dieci anni che però ha la coesione di un album fatto e finito tanto che se non l’avessi letto non lo avrei sospettato ed avrei catalogato questo nuovo Songs From The Pale Eclipse sotto la voce di un nuovo album.
Si inizia con la splendida ballata in odore Velvet di Only You con ritmi cadenzati, voce evocativa e filtrata e chitarre spacey.
Lonesome Bulldog, secondo brano, prosegue come un sognante e drogato viaggio sotto l’insegna delle good vibrations con una stupenda e melodica chitarra twangy che detta le coordinate per un percorso più pop sempre all’insegna di una perfetta fusione di Stones e Velvet come, da sempre, nelle corde dei nostri.
Di brani così, anche se non sono certo niente di nuovo, non se ne può proprio fare a meno, oggi più che mai.
La più sfocata Easy To Forget, languida e riflessiva, prosegue con onde elettriche che accompagnano la voce, nitida e sicura, in un viaggio senza ritorno tra le migliori pagine dei Doors di Jim Morrison!
La sbilenca cantilena psycho-pop di Dance Alone, sposta leggermente l’asse verso lidi più solari ma è solo un miraggio sfumato con la successiva We Took All That Acid che, sin dall’esplicito titolo, imbocca con decisione l’autostrada a senso unico delle deformazioni e distorsioni indotte addentrandosi con massicce dosi di feedback in un ipnotico incubo di tribali percussioni e sinusoidi elettriche monotematiche.
C’è spazio anche per il disagio dell’amore raccontato tra le pieghe di Love Is A Disease, altro saliscendi con refrain killer che ci scalda il cuore.
Oggi, del resto, se dobbiamo cercare delle certezze in questi territori, pensando a gente che oltre a conoscere bene la materia con il suono giusto, caldo e vintage, sa anche comporre canzoni da ricordare ci dobbiamo rivolgere agli eternamente emergenti texani BLACK ANGELS, ai danesi BABY WOODROSE (in questi giorni è disponibile il loro nuovo Freedom!!) o ai WOODEN SHJIPS che però sembrano offuscati dai più pop MOON DUO (altra creatura del chitarrista e leader Ripley Johnson).
Insomma una materia che non stanca MAI noi appassionati terminali che ci perdiamo sempre molto volentieri tra la confusione elettrica e le tentazioni melodiche figlie dei migliori sixties!!
D’altronde, i WARLOCKS sembrano suonare, direi in questo caso magicamente, sempre lo stesso brano con gli stessi ritmi e la stessa splendida melodia che rimanda alle indimenticabili origini della nostra musica preferita, oggi come allora!
Possiamo stare certi che con l’ossessione di Bobby Hecksher di registrare su nastro tutto quello che scrive il prima possibile avremo sempre la certezza di disporre di un’ottima dose di acid rock della migliore specie.

Roba buona e preziosa…

Reverberend

giovedì 15 settembre 2016

THE DOOMED BIRD OF PROVIDENCE - Blind Mouths Eat
(CD Front & Follow)


Uno dei miei piaceri preferiti è sempre stato quello di scoprire nuovi gruppi o musicisti solo guardando le copertine dei loro dischi. Ho preso qualche cantonata, inutile dirlo, ma spesso sono tornato a casa con piccoli o grandi album che mi hanno soddisfatto completamente. In epoca digitale il fascino di questo gioco non può essere lo stesso, ma qualche negozio di dischi esiste ancora e quindi vi consiglio di provarci.
Perchè questa premessa? Perchè il gioco ha funzionato ancora una volta con questo meraviglioso, sorprendente e inaspettato lavoro dei Doomed Bird Of Providence. Ho adocchiato la copertina durante una svogliata navigazione in rete e subito ha attratto la mia attenzione. Guardarla mi ha trasmesso un senso di apprensione e spavento come non mi succedeva da tempo. Non vi è nulla di efferato nel disegno, ma il buio, le montagne incombenti sullo sfondo, la pallida luna, l'uomo in mezzo all'acqua nera come la pece... Una sensazione di disorientamento e di solitudine impressionante. Mi sono chiesto che musica potesse contenere una simile copertina, e il nome del gruppo, abbinato al titolo dell'album si sono rivelati una calamita fenomenale per il sottoscritto.
Veniamo al sodo: i Doomed Bird Of Providence sono una five piece band inglese di stanza a Londra e Colchester che suona un folk cupissimo e apocalittico, narrante antiche storie legate al colonialismo inglese; storie epiche e drammatiche, di speranze e capitolazioni, di avventure verso l'ignoto e lotte di sopravvivenza contro la natura e gli indigeni del posto. Blind Mouths Eat, uscito nel 2014, è il loro secondo lavoro sulla lunga distanza ed è diviso in tre parti: le prime cinque canzoni raccontano la storia dei folli coloni inglesi di Kangaroo Island, venditori di pelli di selvaggina letteralmente saltati da una nave che li trasportava in Australia. Le loro vicende tragiche ed epiche al contempo, intrise di sofferenza, fatica, crudeltà (verso gli indigeni soprattutto) e assenza di una qualsiasi possibilità di redenzione; vengono raccontate con una musica dove l'atmosfera è quasi doom, catastrofica ma piana allo stesso tempo. Violini, accordion, arpe e chitarre costruiscono un suono fangoso, dove anche la voce sembra provenire dalle pieghe di un tempo andato.
"Tossisco e sputo sangue" si recita in Hang From Your Neck, e si sente tutta la fatica, la disperazione, la fine incombente. Impressionante, davvero.
Le successive tre canzoni sono tratte dal diario di una donna australiana vissuta alla fine del 19° secolo. Negli scritti si narra di vita quotidiana, accadimenti di paese, si tiene conto degli arrivi e delle partenze delle navi mercantili. Alcune pagine sono il resoconto di un risveglio dopo un sogno inquietante che vedeva la donna scendere per la strada e dirigersi al cimitero, dove si teneva una cremazione. Sogno premonitore: di lì a poco la tubercolosi se la porterà via. I brani che raccontano questa storia sono la perfetta colonna sonora della vicenda, da ascoltare col fiato sospeso. Una macabra meraviglia.
L'ultimo brano, Mahina, è uno strumentale di quasi 19 minuti, dove solo apparentemente non sembra succedere molto, in realtà la tensione che la percorre interamente cresce di continuo, come l'affanno di un'ipotetica arrampicata verso altissime rocce, con la speranza vana di scorgervi oltre la salvezza. Resteranno solo le allucinazioni. Il mood complessivo del disco è costantemente piano e pastorale; ricorda un viaggio nomadico in territori sconosciuti, ma vi sono anche picchi di distorsione chitarristica come in Through The Streets Of Albany, la più aggressiva del lotto, che iniettano energia e dinamica nel corpo del lavoro.
Oggi sembra il primo giorno d'autunno, piove e l'aria è fredda, il cielo plumbeo. Non riesco a smettere di ascoltare questo disco.

Edvard von Doom


martedì 13 settembre 2016

NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Skeleton Tree
(CD Bad Seed Ltd)


Lungamente atteso da me questo disco arrivato in un momento importante nella vita di un uomo maturo (22 settembre 1957, 58 anni), apparentemente in pace con se’ stesso ed il mondo, costretto a rifare il percorso a ritroso alla luce delle vicende private soprattutto legate alla morte del figlio Arthur, appena quindicenne, che è caduto / si è buttato da una scogliera (dopo aver preso l’lsd?, ma questo non è cruciale!).
Impossibile, naturalmente, scindere quanto accaduto dalla stesura temporalmente parallela dell’album in questione che arriva dopo Push The Sky Away (quindicesimo album della band - Bad Seeds -  pubblicato nel 2013 e ad oggi il più venduto della sua nutrita discografia).
In verità non sapevo proprio cosa aspettarmi: avrebbe potuto muoversi in direzioni differenti, estreme, disturbanti o richiudersi su se’stesso, con i suoi dolori, le sue confessioni a cuore aperto cercando uno spiraglio di luce in fondo al tunnel con il supporto della poesia, della musica dei suoi fans e della fede.
Già la fede, con la quale l’artista si è confrontato per tutta la sua vita da una parte all’altra del fiume della vita cercando di dare un senso a tutto, alla religione, alla necessità di credere in qualcosa (l’ombra di Soren Kierkegaard in questo percorso è piuttosto ingombrante).
Mentre scrivo sto’ riascoltando per la seconda volta soltanto, ripetutamente l’album in questione: già dalla cover si intuisce che tra le note di Skeleton Tree non c’è alcuna luce, non c’è speranza.
Si inizia con Jesus Alone e la voce profonda di Nick che recita sicura e possente su di un disturbante tappeto di sintetizzatori ed un sibilo elettronico che crea una melodia insidiosa e sinuosa allo stesso tempo che cerca di aggrapparsi a qualcosa, il ritmo è quasi assente ed un coro femminile è l’unica cosa che dona il calore necessario a cercare il coraggio di chiedere aiuto a qualcuno, qualcosa più grande della vita stessa.
Rings Of Saturn si appoggia nuovamente su di un labile tappeto elettronico sostenuto dal piano dalla melodia più positiva e le voci femminili che si sovrappongono a quella di Nick e l’accompagnano lungo tutto il brano.
Una melodia di piano eterea ed epica prende per mano la voce di Nick sin dall’inizio di Girl In Amber  che può contare solamente su di un contrappunto elettronico, una nota o poco più, e le voci femminili, sempre presenti che compaiono come lontane ombre e sottolineano il clima plumbeo del brano, splendido ed intenso come poche cose quest’anno.
Anche Magneto conta solamente su di una sottile base di sintetizzatore, quasi un ronzio, un impercettibile ritmo metronomico, il piano con poche epiche note diradate, abbracciato indissolubilmente con la voce che recita, si confessa, si pone domande senza risposte.
Anthrocene si apre con un ritmo anarchico e le voce sempre padrona che declama sulle modulazioni sfocate di sintetizzatore, quasi un lamento, con il piano che segue da vicino.
Batteria e sintetizzatore lieve ma quasi marziale e la voce ora più vicina alla melodia ci conduce nel clima leggermente più disteso di I Need You caratterizzata da un’intensità difficilmente eguagliabile: una richiesta d’aiuto!
Poi, il vertice del disco, con la commovente Distant Sky quasi una preghiera, scarnissima, flebili suoni, la voce di Nick e quella angelica di Else Torp, verso la luce.
La finale Skeleton Tree, una ballata più tradizionale con un mood meno funereo ed una forte presenza melodica ci accompagna verso un futuro, una forma possibile di futuro, nonostante tutto.
Certo, un disco difficile dove l’artista ha voluto affrontare attraverso la sua musica il suo percorso personale, a cuore aperto: questo è Nick Cave allo specchio. Oggi!

Chapeau.

Reverberend

GLAM SKANKS - Glitter City
(CD Unison Music Group)


Certe cose possono accedere solo a Los Angeles (ok i nostri Giuda sono una splendida eccezione!): Una super band come non se ne sente da tempo: fresca, esplosiva, sboccata, competente con un’immagine perfetta e con brani da urlo.
Metteteci anche che la chitarrista V (Veronica Witkin) è la figlia di Bruce Witkin degli HOLLYWOOD VAMPIRES al fianco di ALICE COOPER, Joe Perry e JOHNNY DEPP, il che non guasta affatto in un ambito come quello musicale.
Le GLAM SKANKS sono un quartetto femminile (in realtà JAXINE alla batteria è un uomo ma si veste sempre da donna quindi fate un po’ voi…..) con tutto ma proprio tutto al posto giustoooooooooo…
Sono una miscela di GLAM (DAVID BOWIE di The Rise And Fall…. e Aladdin Sane, gli SLADE di Play It Loud del 1970 e Sladest? Del 1971 ed anche il T-REX di The Slider del 1972), PUNK (NEW YOR K DOLLS e JOHNNY THUNDER & THE HEARTBREAKERS di L.A.M.F.), ROCK’N’ROLL (LOU REED, AEROSMITH, JOAN JETT, RUNAWAYS e più tardi le DONNAS del primo album) ed una manciata di POP anni settanta.
Il logo e la cover non permettono dubbi, siamo tornati in piena era glam, nella prima metà degli anni settanta con un’energia figlia dei giorni nostri.
Giuro, non c’è una virgola fuori posto in Glitter City : il susseguirsi dei dieci brani mette in mostra le varie sfaccettature del loro sound senza alcuna sbavatura.
Questa volta sono i fratelli McDonald  (RED KROSS) a masturbarsi sognando di produrre una band come questa.
Volete qualche titolo: G.L.A.M., Teenage Drag Queen, Fuck Off, Bad Bitch, Radio blues, I Want It Now, Blow Me…
Giusto per capire di che pasta sono fatte queste mocciose.
Il suono è valvolare, vintage e potentissimo (fantastico il suono della batteria pieno e corposo) dove le chitarre secche e taglienti (Flying V of course…….) dettano le danze sfrenate a base di sesso, droga e rock’n’roll come da tradizione!!!
Il loro meglio lo danno nelle infuocate esibizioni live come dimostra il loro battesimo al Roxy!!!!
Con un album come questo dovrebbero finire in tutte le case e poi scomparire per sempre.

Non vedo nessun’altra soluzione: impossibile fare di meglio nel genere, credetemi.

Reverberend

venerdì 9 settembre 2016

HIPPIE DOOM SQUAD - Dark Side Of Reality
(MCD Riff Dealers Records)


Capita a tutti di avere un momento nel quale non va bene nulla, nulla è in grado di appagare come quel fastidioso bisogno di qualcosa che stupisca o sorprenda.
Bene, io mi trovavo proprio qualche giorno addietro in una situazione del genere: continuavo incessantemente a cercare suoni, sensazioni di tutto un po’ e nulla mi andava bene, proprio nulla.
Niente da fare, ho dovuto mollare l’intento e cercare di non pensare a niente: passerà.
Situazione difficile in ufficio e tutta una serie di tensioni forse sono stata la causa scatenante aggiunta al fatto di ascolti compulsivi che di certo non aiutano.
Insomma a farla breve mi è venuto in aiuto il fido von Doom, sbattendomi in faccia il disco in questione: beh, cazzo è stata una cosa assurda.
MAI avrei immaginato di tornare a sentirmi letteralmente trapassare da tanta strabordante energia: ESALTANTE e DEVASTANTE al medesimo tempo.
La band proviene dalla Bielorussia (?!?) ed è riuscita già con la splendida cover, un vero e prezioso monumento del miglior d.i.y., a far riaffiorare nella mia mente il periodo d’oro ed irripetibile di generi come l’HARDCORE, lo SLUDGE, il CRUSTY ed anche i temibilissimi mid-tempo cadenzati tipici del MOSH.
Ma non hanno collocazione temporale precisa i suoni e la furia contenuta nei 22 minuti dei sei brani contenuti in questo spettacolare Dark Side Of Reality.
Musica d’altri tempi ma perfetta per i tempi odierni, se capite quello che voglio dire: tempi bastardi, vissuti senza pensare al futuro (come dicevano Johnny Rotten e soci??).
La cascata di riffs chirurgici delle chitarre, i ritmi perfettamente hardcore (della miglior specie, DISCHARGE in testa ovviamente) intervallati da sapienti fasi cadenzate quasi doom dalla pesantezza ricercata e trovata (ho pensato ai migliori 16 di Curves That Kick tra gli altri) e la voce sofferta e dirompente che si inserisce nel creare un muro del suono difficilmente riscontrabile oggi.
Trasmettono una freschezza, non certo originalità, fuori dal comune: rabbia, voglia di cambiare il corso delle cose, un BASTA urlato con il supporto della distorsione sino alla sordità!!
Cosa si può desiderare di meglio oggi, in un’epoca in cui, nonostante gli accadimenti quotidiani, nessuno osa più ribellarsi o alzare la voce.
Al primo ascolto sono rimasto senza parole, poi, con calma ho riascoltato questo tornado elettrico che mi ha letteralmente fatto sobbalzare, ed anche fatto tornare un’energia che avevo smarrito durante la mia adolescenza.
Ah, il potere della musica!!
Assolutamente OUT OF STEP, giusto per citare un altro pilastro di indipendenza e coerenza quale è stato ed è tutt’ora Ian MacKaye.

Da ascoltare e riascoltare…

Reverberend

HARD MEAT - Hard Meat / Through A Window
(CD Progressive Line)


Dovete sapere che il sottoscritto e l’esimio professore Von Doom si sono incontrati per la prima volta circa trentacinque anni orsono e, nel paesello dove vivevano hanno subito capito che bisognava darsi da fare, quindi, con altri due disperati hanno formato una band, BADDER MIND-OFF il nome scelto (sì proprio dalla gang terroristica tedesca BAADER MEINHOF degli anni settanta) [la memoria ti fa difetto, caro Reverberend… Vero il rimando ai terroristi, ma il nome arriva da un romanzo di Nigel Kneale: Quatermass, la Terra esplode dove dei reietti venivano così definiti. Reietti come noi, ah ah. N.d.Doom] che non voleva, ne pretendeva, di andare da nessuna parte ma solo sfogare frustrazione e rabbia per tutto ciò che li circondava… Dopo questo periodo, diciamo formativo, ci siamo inevitabilmente persi di vista per ri-incontarci casualmente in un negozio di dischi circa venticinque anni dopo ed è proprio in quel preciso momento che ci siamo resi conto di quanto fosse importante la nostra AMICIZIA. La musica inevitabilmente è il collante che ci ha permesso di capire tutto questo ed essendo degli hardcore fan di ogni suono e rumore che la storia dell’uomo ricordi, dai suoni naturali (dalla scoreggia, avete letto bene e solo al ricordo delle risate che ci facevamo ascoltando Music From The Body di Roger Waters del 1970…) [cazzo, mi fanno male ancora gli addominali, se ci penso! The madcap laughs!! N.d.Doom] all’isolazionismo più puro sino alla violenza più inaudita… Insomma tutto.
Tutto questo per dire che, nonostante la nostra ricerca sia durata una vita intera, insieme e separatamente, capita fortunatamente ed abbastanza spesso di essere sorpresi da qualcosa che ancora non conoscevamo; ed il magico della musica tutta è proprio questo processo del cercare sempre e comunque nuovi stimoli per alimentare l’insaziabile passione che ci accompagna, come nei migliori sogni possibili.
Volevo introdurre in modo degno queste righe dedicate ai gloriosi Hard Meat, band inglese, di Birmingham per la precisione, che è durata dal 1969 al 1971 distribuendo con saggezza lungo due splendidi 33 giri (l’omonimo esordio ed il successivo Through A Window, entrambi del 1970) brani di rara bellezza che si sciolgono magicamente tra umori progressive ante-litteram, tentazioni hard e ballate semi-acustiche senza tempo.
E’ incredibile perché io ho scoperto questa band per puro caso e mi chiedo come sia possibile che non ne avessi mai letto da nessuna parte!!
Mentre scorrevano i brani gioivo ed allo stesso tempo rimanevo perplesso di fronte a tanta bellezza, bellezza che è rimasta per pochi fortunati, come spesso accade, che hanno incrociato casualmente queste canzoni e ne hanno riconosciuto il meritato valore.
Già, la storia a volte, anzi spesso, non riconosce se’ stessa.
Così è la vita cari miei.
Non è mia intenzione entrare nel merito dei suoni di questi due immancabili dischi ma è mio dovere di appassionato segnalare la loro esistenza per cercare di porre rimedio a quanto sopra detto: è letteralmente impossibile che non ne rimaniate ammaliati.
Da buoni appassionati di musica (tutta!!) vi perderete in questa magica esperienza dimenticandovi di tutto ciò che vi circonda, sicuri che non sarà che una delle tante volte che vi succederà.

Sogni e bisogni del nostro inquieto vivere…

Reverberend

mercoledì 7 settembre 2016

STRICTLY CONFIDENTIAL
Mindblowing Sounds From The Dark Places


Impossibile avere la pretesa di poter ascoltare il meglio di ciò che succede nel mondo musicale oggi! Nel mare magnum di incontrollato/incontrollabile flusso di uscite segnalate e riscontrabili in veri e propri mostri come Spotify e Bandcamp, oggi spazi/motori assolutamente essenziali per avere un occhio vigile su ciò che succede “sottoterra”, non ci si può concedere nessuna distrazione… Less is more… Ricordo, senza nostalgia beninteso, che negli anni della mia adolescenza (quindi i famigerati anni ’80) le notizie su ciò che succedeva nel campo musicale si potevano avere su riviste indipendenti ma ufficiali come Rockerilla (l’unica che trattava la musica una volta veramente alternativa al mainstream) oppure, per quanto riguardava il PUNK, su innumerevoli fanzine (ne facevamo anche noi due chiamate BLAST OFF! ed un mio caro amico si occupava di DECONTROL) che recuperavo al Virus durante i frequenti concerti a quei tempi completamente autogestiti ed organizzati e da Virus Diffusioni in via Orti a Milano che però avevano uscite, dati i mezzi scarsissimi, obbligatoriamente a dir poco irregolari e quindi erano sempre inevitabilmente in ritardo rispetto a ciò che succedeva nella realtà.
C’era proprio un diverso rapporto con il tempo, non era ne’ meglio ne’ peggio di ora, semplicemente diverso.
Si andava in un noto negozio di importazione vicino Varese (dove tutt’ora abito) ancora oggi in piena forma e ci si ritrovava a vedere i 45 giri appesi alle pareti e così si veniva a conoscenza delle nuove uscite inglesi ed americane: sembra di parlare del periodo paleolitico invece sono passati “solo” 30 anni! Pazzesco…
Oggi anche il ruolo della critica (riviste, blog, forum e siti vari…….) è cambiato completamente dovendo per forza di cose scegliere/filtrare in un oceano di illimitate possibilità.
L’acquisto di un disco è rimasto sempre un gesto speciale anche dopo tutti questi anni: la scelta, oggi possibile anche dopo aver assaporato qualche nota che permette di evitare in senso assoluto cattive sorprese, è comunque difficile di fronte a tale maestosa quantità.
Poi c’è anche il mercato ed il marketing ad esso correlato che immettono regolarmente in circolo prodotti e riedizioni, cofanetti relativi ai conclamati capolavori unanimemente riconosciuti in forme nuove o perlomeno atti a scavare ed a dare un senso compiuto a questi dischi indispensabili.
Prendiamo ad esempio, per parlare di dischi storicamente rilevanti, della bootleg series di Bob Dylan: The Cutting Edge: 1965/1966 The Bootleg Series vol.12 (6 CD).
Si parla, come noto, delle leggendarie sessions che hanno partorito la trilogia incredibile di Bring It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde.
Si analizza il work in progress, come l’elettricità presente in questi magici solchi abbia riscritto la storia della musica tradizionale americana, come la fatica e l’imperfezione (ricordo che in un cd del box ci sono 20 versioni, dicesi venti, di Like A Rolling Stone!?!) abbiano portato alla, quella sì, perfezione formale dei dischi ufficiali pocanzi citati.
Non posseggo questo box, nonostante riconosca l’assoluta eccellenza degli originali che ho letteralmente consumato nel corso degli anni, perché non mi interessa affatto analizzare e decostruire nulla.
Ho fatto l’esempio di Bob Dylan perché oggi è sulla bocca di tutti ma potevo fare lo stesso con qualcosa di più vicino a noi “sotterrati” come le sessions complete di Raw Power degli Stooges: stesso discorso per quanto mi riguarda; non mi interessa ascoltare ripetutamente l’evoluzione di nulla.
Personalmente è un discorso più di pancia e di cuore che non di testa.
Giusto per dire che invece ho comprato il fantastico doppio CD (edizione limitata, con corposo ed esaustivo librettone storiografico di 180 pagine, da urlo davvero) curato dalla Numero Group riguardante tutti i 45 giri (13 in tutto) della mitica ORK records di New York ed ho goduto nell’ascoltare per la prima volta bands eccellenti e per nulla scalfite dal passaggio del tempo come, per esempio, i Marbles ma anche brani sorprendenti ed inediti dei primissimi Feelies, il primo 45 giri dei Television o la versione di Can’t Seem To Make You Mine dei Seeds rivista da Alex Chilton!
Questione di scelte in ogni caso.
Considerato che sono una persona curiosa, la curiosità porta alla conoscenza e la conoscenza spesso alla saggezza, sono sempre stato propenso a scavare ed a cercare con metodicità ed impegno nuovi tesori ancora sommersi ed incontaminati.
Da una cosa nasce naturalmente un’altra cosa e quindi è stato una sorta di percorso “obbligato” quello di ricercare le origini della nostra musica e di altre musiche per dare maggior senso a tutto, per capire il fluire del tempo e per focalizzare il “filo” immaginario che tutto lega.
Sappiamo tutti che spesso le condizioni che hanno portato alcuni nomi considerati fondamentali per la storia della musica come, giusto come esempio, Robert Johnson, devono sicuramente la loro incredibile notorietà al caso o destino, alla leggenda (ricorderete il famoso crocicchio, “crossroads”, ed il patto con il diavolo!!) che si è creata intorno al loro nome durante l’inesorabile passare del tempo.
Perché, com’ è noto, ai tempi delle mitiche ricerche e primitive registrazioni di Alan Lomax direttamente sul campo, per esempio, di bluesman ce n’erano davvero parecchi in circolazione, però la storia ha voluto che fosse, in questo caso, Robert Johnson il nome prescelto da tale Eric Clapton o, un altro esempio, per quanto riguarda il blues elettrico di Chicago, quello di Muddy Waters scelto dai Rolling Stones per dare inizio alla loro rivoluzione, direttamente dalle fondamenta, della musica rock americana tradizionalmente intesa.
Questione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto… oltre ovviamente all’indiscusso ed immancabile talento, molto è da attribuire ad una sorta di fortuna voluta da chissà chi e chissà quando e chissà come… ma questo è un altro, e ben più complesso, discorso ignoto a noi terrestri e “sottoterrestri”.
Ed è proprio da questi presupposti che è nato il “mito” dei nati perdenti (proprio come l’anthem garage-punk per antonomasia registrato dai Murphy and the Mob Born Loser nel 1966!): in questo senso si potrebbe stilare un elenco così lungo che non basterebbe un’enciclopedia.
E’ ben evidente che tutti questi personaggi (ce n’è davvero per tutti i gusti!) degni di essere annoverati in questo infinito elenco sono come predestinati (non è nelle loro possibilità cambiare il corso delle cose) nello stesso modo arcano ed irrazionale per il quale altri artisti possono raggiungere uno status da star di prima grandezza.
Sono stati spesi veri e propri fiumi di parole su questo argomento: il più ricorrente commento è sempre stato “…e ci sarà pure un motivo se nessuno se li fila più questi dischi… evidentemente non valgono un cazzo… è la storia che decide per noi….” e via di questo passo…
Sappiamo bene che non tutti possono chiamarsi Mick Jagger o Keith Richards ma oltre alla loro figura, ovviamente di indubbio spessore, è stato possibile tutto ciò che è successo anche e grazie al merito sostanziale di figure fondamentali come il produttore Andrew Loog Oldham, oppure i Beatles con la figura di George Martin o ancora con Elvis Presley e l’ingombrante ma imprescindibile figura del colonnello Tom Parker, solo per citare i più famosi.
O, che diamine, l’acuto e cinico “regista” Malcolm McLaren con i famigerati “burattini” Sex Pistols…
Spesso si scovano dischi fatti da gente che voleva solo trovare uno sfogo per le proprie frustrazioni e/o follie ed era praticamente ed assolutamente ingestibile: è ovvio che a tutti piacerebbe il lato luccicante e sicuramente effimero del successo (lusso, stravizi, sesso a volontà…) ma l’altro lato, quello oscuro e meno decantato fatto di impegni, pressioni spesso insostenibili, costanza ed attitudine al confronto diretto continuo e incessante ed a tante altre, spiacevoli per i più, cose che rendono lo stardom un territorio difficilmente percorribile ed altamente pericoloso (leggi droghe, alcol, autodistruzione, depressione, solitudine…).

Guardandosi indietro, a volte neanche troppo, ci si accorge immediatamente che i dischi passati inspiegabilmente inosservati e ingiustamente nemmeno presi in considerazione sono tanti ed è difficile trovare delle spiegazioni plausibili.
Non sto’ cercando il classico “pelo nell’uovo” beninteso ma, credetemi, è davvero un peccato non ascoltare con attenzione certi dischi.
Ce ne sono talmente tanti che è difficile organizzare una scelta razionale quindi mi affido ad una scelta assolutamente arbitraria e di cuore dettata appunto dalle emozioni (le stesse che ho provato rileggendo la storia dei Laughing Soup Dish).
Ecco dunque dieci titoli, in ordine cronologico, che il cuore ha spontaneamente scelto tra i miei scaffali per regalargli ancora il magico dono dell’ascolto sperando che quanto scrivo vi faccia scattare la scintilla tesa a concedere a questo manipolo di pazzoidi una piccola porzione del vostro prezioso tempo.
Doverosa l’aggiunta di un bonus riguardante una band davvero speciale, Bad Liquor Pond, troppo recente per essere inclusa nei dieci dischi scelti, che si è da poco separata definitivamente: ho reputato obbligatorio riesumarla per pochi istanti dal definitivo oblìo che probabilmente la accompagnerà anche per il resto dei giorni.
Benvenuti nello “strettamente confidenziale” arcobaleno di meraviglie che la mia avida mente di eterno appassionato ha partorito appositamente per voi:

LOS CHIJUAS - Los Chijuas
(LP Active Records)


Erano messicani, provenivano dallo stato di Chihuahua ed hanno realizzato solo una manciata di singoli durante la seconda metà degli anni ‘60, uno dei quali (la cover di Mighty Quinn degli inglesi Manfred Mann) arrivò ad essere un hit locale! Poco altro, sino a che un’attenta e spavalda etichetta greca (la Action Records) messa in piedi da un manipolo di giovani a metà anni novanta ossessionati dai suoni sixties più morbidi e semplici (siete avvisati!) ha deciso di ristampare i loro singoli includendoli in uno stupendo 33 giri per cercare di renderlo disponibile ai pochi fortunati che lo avrebbero fortuitamente incrociato nel loro percorso di vita.
I Los Chijuas facevano garage-moody, ovvero quel tipico garage originariamente proveniente dal New England americano che rispecchia i grandi spazi e le numerose ed incontaminate foreste presenti in quei territori silenziosi e magici ammantati da una malinconica patina che li rende, almeno agli occhi di chi li ama (me compreso), così affascinanti.
Bands come i Rising Storm (quelli di Calm Before…), i Summer Sounds o compilations come Relative Distance o la serie New England Teen Scene tra le più “note”per interderci (se volete scavare più a fondo anche la Action Rec. ha realizzato due splendide compilations in tema, rispettivamente Times Gone By e Searching For Love).
Meravigliosa la cover di Los Chijuas con colori che rimandano direttamente al sud America e la foto della band, semplice ma d’impatto, in linea con le produzioni del periodo.
Per chi ama questo tipo di suoni Changing The Colors Of Life è un brano esemplare: ritmo medio, chitarre melodiche a sorreggere i malinconici ed epici ritornelli e la classica struttura di un brano da considerarsi perfetto!!
Il modo di costruire i brani deve molto ai Byrds ed al loro tipico jingle-jangle chitarristico mentre per quanto riguarda le parti vocali il riferimento più immediato possono essere gli inglesi Zombies (come esempio si potrebbe prendere She’s Not There loro debutto nel 1964 o Time Of A Season nel loro più edulcorato album Odessey & Oracle del 1968): la combinazione di queste due bands completamente differenti può dare un’idea di come risulta essere un ipotetico modello di garage-moody band dei medi-sessanta!
I LOS CHIJUAS erano assolutamente decentrati, essendo messicani, ma sono riusciti ugualmente a creare una serie di canzoni (nel disco in questione ne sono raccolte 12)  tutte nello stesso stile ed a livello delle migliori produzioni americane del periodo.
Assolutamente da ri-scoprire!



BLUESTARS - Bluestars (Not From Birmingham)
(LP Dig The Fuzz Records)


Questa band neozelandese (di Auckland per la precisione) è stata ovviamente influenzata dal R’n’B inglese di gente come Animals, Rolling Stones, Yardbirds, Pretty Things, Birds (di Ron Wood) ed ha registrato una manciata di singoli (dal 1965 al 1967) di grande impatto garage-freakbeat che sono un MUST per chiunque voglia capire cosa voleva dire essere selvaggi durante i sixties.
La loro Social And Product (Settembre 1966) è uno dei brani più incredibili di tutti i sixties (scoperto grazie a Greg Prevost ed i suoi Chesterfield Kings con una travolgente cover nello stupendo album “Don’t Open Til Doomsday” del 1987): purissimo mayhem di chitarra fuzz e vocals arroganti e strafottenti ed isteriche urla nel bel mezzo del brano!
Ma non è finita quì perché anche il resto di questa compilation è eccellente: I Can TakeIit, Please Be A Little Kind sono anch’esse anthem di purissimo distillato garage-freakbeat della migliore specie.
In questo disco d-e-f-i-n-i-t-i-v-o ci sono tutti i loro singoli dell’epoca che ovviamente sono sparsi anche nelle migliori compilations di rari singoli uscite in tutti questi anni (sto parlando di Wild Things Vol.1, Transworld Punk Vol.2, Ugly Things Vol.3…).
Cercatelo e godete ragazzi miei… Satisfaction guaranteed!!


COLOURED BALLS - Ball Power
(LP EMI)


Erano australiani e prima di divenire quella vera e propria macchina da guerra di nome Coloured Balls si facevano chiamare Purple Hearts (vi consiglio di ascoltare attentamente la stupenda ristampa della Half a cow Rec. Benzedrine Beat uscita nel 2005 che comprende tutta la loro discografia).
Già dalla cover di Ball Power è facile intuire che l’immaginario è quello di giovani skinheads (in Autsralia nel 1972!?) o meglio sharpie ( da questo nomignolo che avevano adottato le gang dei sobborghi di Melbourne in quel periodo ha preso il nome l’odierna SHARP Skin Heads Against Racial Prejudice): pensate che si sono sciolti nel 1975 ovvero giusto un anno prima della nascita degli Sham 69 in Inghilterra!
Le influenze di questa gang di teppisti sono molteplici (da AC/DC a Rose Tattoo) ma di base il loro suono è PUNK, così come poco dopo, e sottolineo poco dopo, lo iniziarono a fare anche i Sex Pistols a Londra!!
Prendiamo pure Won’t You Make Up Your Mind e possiamo sentire chiaramente tutto ciò che ha portato il punk: una vera rivoluzione elettrica di suoni crudi e selvaggi.
Riascoltando oggi i Coloured Balls ci si accorge immediatamente che non hanno perso nulla in tutti questi anni: non consigliare a tutti i fans delle chitarre pesanti (Punk, Hard Rock) questa splendida ristampa della Aztec Rec. (attenzione alle extra-tracks da paura!) è un peccato mortale.



EXPLODING WHITE MICE - Brute Force And Ignorance
(LP Greasy Pop)


Nel 1983 ad Adelaide, sempre in terra australe, nasce una band di sporchissimo punk rock e rock’n’roll che non ha raccolto tutto ciò che ha seminato quindi per noi è già di per se’ oggetto di culto: si chiamavano Exploding White Mice (hanno preso il loro nome da una scena del film Rock’n’Roll High School del 1979 dove un laboratorio pieno di topi esplode letteralmente una volta esposto alla musica dei Ramones).
Le loro principali influenze sono da ricercare ovviamente nei Ramones in primis ma anche nei conterranei Radio Birdman, MC5, Stooges, Johnny Thunder e tutte le bands americane garage dei sixties.
Già il loro primo mini-lp A Nest Of Vipers (sei brani, uscito per la Greast Pop Rec. nel 1985) è un grandissimo esempio di lercio punk and roll a cui non manca proprio nulla.
Ma il loro primo lp Brute Force And Ignorance del 1988 è un capolavoro che tutti dovrebbero avere e che purtroppo non è stato per nulla celebrato come invece avrebbe dovuto essere e si è perso nel marasma di uscite dell’epoca.
Fear (Late At Night) è la prima bomba con cantato arrogante e strascicato e assoli di chitarra con note prolungate: i cori sono da antologia!
Verbal Abuse, Bury Me, Hit In The Face ma anche tutti gli altri brani sono difficilmente dimenticabili con un suono, proprio come in un’infuocata esibizione live, potente e diretto e le chitarre che dominano su una voce pastosa e trascinante!
L’apoteosi finale è rappresentata dall’inarrivabile cover dei DMZ di I Wanna Get Off, lenta ed iper-elettrica con la voce che si perde nei circolari ed ipnotici riffs di chitarra e feedback magistrale. Veri e propri maestri,  gli Exploding White Mice hanno poi realizzato altri tre album sulla falsariga del loro esordio ma, a mio avviso, non paragonabili per resa sonora.
Si sono sciolti nell’indifferenza generale nel 1994.
Riesumarli è un dovere!



PHILISTEINS - Lifestyles Of Wretched And Forgettable
(LP Dog Meat Records)


La creatura di Guy Lucas (alla voce, chitarra ed organo) si è formata nel 1985 ad Hobart, una cittadina in Tasmania (Australia) ai confini del mondo, ed è riuscita attraverso il primo album Reverberations (auto finanziato ed uscito solo su cassetta realizzata nel 1987) a gettare le basi che hanno permesso al successivo mini-lp Bloody Convicts (1988) di varcare i confini nazionali e giungere sino alle orecchie di qualche attento critico (in questo caso specifico l’amico Claudio Sorge che ne aveva parlato su Rockerilla) che aveva visto in loro, nella loro acerba e caotica, un po’ per volontà un po’ per mancanza di mezzi, ricetta di garage-rock davvero primordiale una luce speciale.
Anche il successivo Some Kind Of Philisteins (1989), un altro mini-lp nel quale compare un’eccellente versione fuzzata a dovere di Thoughts Of A Madman dei Nomads - North Carolina , 1967 - vero capolavoro del garage di tutti i tempi!
Dopo di questo anche le cronache più attente li hanno abbandonati al loro destino dimenticando di raccontare le meraviglie del loro canto del cigno ovvero l’lp Lifestyles Of Wretched And Forgettable (1991) uscito sulla eccellente Dog Meat Rec. (dalla canzone dei Flamin’ Groovies).
In questo stupendo disco il loro suono si è fatto più progressivo, nel senso che si è slegato dai ritmi garage filo sixties, per raggiungere una desolata terra di uguale intensità elettrica, oltremodo primitiva e selvaggia ma molto più personale (l’album della maturità?): brani come la stonata e sbilenca cover dei Pretty Things psychedelici Can’t Stand The Pain (contenuta in Get The Picture? del 1965) sono memorabili, lo stesso dicasi per Point Of No Return originale ballata punk-psychedelica grezza e melodica com’era nel loro unico stile.
Nel 1992 si sono sciolti nell’indifferenza generale: da segnalare che Guy Lucas,
il frontman dei Philisteins, è morto a causa di un’overdose di eroina nel marzo del 1998 e due membri della band hanno continuato a fare ottima musica con gli Hands Of Time con i quali hanno realizzato uno splendido disco di puro e scalcinato garage-rock (I’m a Hideous Monster uscito nel 2002 con 11 brani compressi in 28 min. e 43 sec. dai quali svetta una splendida ed iper-punk cover dell’immortale In The Past dei Chocolate Watch Band!).



MOTHER TONGUE - Mother Tongue
(CD 550 Music)


Basta sentire un brano, Broken, l’opener del loro disco omonimo, per inserire in un posto speciale nella musica rock di ogni tempo questa band di Austin (Texas) che lo ha realizzato in un epoca in cui tutti i talents-scout delle case discografiche maggiori erano indaffarati nell’impossibile scopo di cercare i nuovi Nirvana.
Si parla di acido blues-rock dalle forti tinte psychedeliche tipico del Texas, terra in cui sono nati e cresciuti gruppi come i mitici Moving Sidewalk (i pre ZZ Top), i 13Th Floor Elevator, Josefus e decine di altre garage band meno note (che potete trovare nelle numerose ristampe della Cicadelic Rec. realizzate sin dagli anni ottanta).
Provate a vedere su Youtube i filmati disponibili di Broken per rendervi conto di cosa erano capaci dal vivo questi ragazzi degeneri.
Mad World è una stupenda ballata desertica che ricorda l’incedere a scatti di certi brani dei Seeds di Sky Saxon (Pushin’ Too Hard su tutti) ma con forti sapori del torrido blues del primo Johnny Winter (altro texano doc con il primo disco su Sonobeat Rec. Progressive Blues Experiment, 1968).
Burn Baby e The Seed sono altri due magistrali esempi di come il rock può ancora essere vivo e a suo modo originale: semplici e diretti si sviluppano sulle rasoiate di chitarra sempre molto secca e rocciosa, padrona del suono, sulla quale poi si muovono le dinamiche ritmiche e la voce roca ma potente.
In piena tradizione texana, degni eredi dell’illustre passato di questo essenziale territorio americano tra i più influenti nella storia del rock.
Il loro contratto con la Epic Rec. è stato possibile grazie all’interessamento di Ian Astbury (leader dei Cult), da sempre genuino appassionato di rock: la band ha girato in lungo ed in largo gli States in compagnia di nomi importanti come Red Hot Chilli Peppers, Pavement, Smashing Pumpkins ma il disco ha venduto purtroppo davvero poco.
Trascurabili i loro dischi successivi, banali esercizi di una band che aveva già detto tutto nel magico ed irripetibile debutto.
Come diceva spesso il loro chitarrista, vero punto di forza della band ma purtroppo, in quel periodo, ossessionato da una forte dipendenza dall’eroina, Christian Leibfried: “Fuck yeah, this is gonna rock!!”



PUSHERMAN - Floored
(CD Ignition)


Nel panorama inglese dell’epoca non esisteva niente del genere perchè erano tutti concentrati sul brit-pop et similia, sulla scia delle due bands che tenevano letteralmente occupati tutti: Blur ed Oasis ovvero le galline dalle uova d’oro!
La fortuna, se così si può dire, per i Pusherman è stata quella di essere presi sotto l’ala “protettrice” di una major come la Sony Rec. (grazie all’interessamento dell’allora manager degli Oasis, Marcus Russell della Ignition Rec.) e di aver avuto la possibilità, durata com’era logico aspettarsi, il tempo di un album, di registrare questo Floored.
L’estasi inizia con Chase It  torrenziale brano come sospeso tra degli Oasis molto più heavy e slowly ed i Verve di inizio carriera.
Sold è un solidissimo e drogato R’n’B moderno con un muro di chitarre e la voce di Andy Frank che ricorda nuovamente quella di Liam Gallagher anche se completamente sfocata.
So Long Low più notturna e psychedelica in senso Spiritualized attenua il clima di torrida elettricità ma solo per poco perché con First Time si ritorna ad un deciso e moderno blues-rock con tanto di slide, voce filtrata e drogata e coriandoli elettrici di chitarra.
Whole ci ammutolisce con un ipnotico e tribale groove di chitarra, un po’ come se gli Stooges volessero cimentarsi con il caldissimo funk dei primi anni settanta, e la voce sgraziata ci riportasse nel nostro tempo con nove claustrofobici minuti di estenuante feedback elettrico.
Never Coming Down epica e memorabile con una melodia tra lo spaghetti-western di Ennio Morricone e il Neil Young più dilatato e psychedelico sommersi in un oceano di rumore bianco.
Non c’è una traccia da saltare sino al fatale punto di non ritorno della suite finale Floored (uncidi incredibili minuti), decadente e moderno mantra psychedelico tra progressioni kraute, drogate dilatazioni dub e deliri di chitarra tra cascate di fuzz e feedback e la voce lontana e persa di Andy Frank ormai irrecuperabile.
Andy Frank si è poi trasferito ad L.A. ed è inevitabilmente morto a causa di un’overdose di eroina nel 2008, all’età di 42 anni…



ACID BATH - Paegan Terrorism Tactics
(LP/CD Rotten Records)


La provenienza è molto importante in questo specifico caso: lo stato è la Louisiana!
Solo dalle malsane paludi di quello stato possono esalare suoni così malati e per certi versi lugubri: dagli esperimenti voodoo-blues-psychedelici di Dr.John (quello di Gris Gris, 1968) alle estreme derive sludge-core deli Eye Hate God scorre lo stesso sangue…
Dax Riggs, il frontman e vocalist di questa degenerata congrega di devastatori del r’n’r, è sfigato per natura nonostante l’indiscutibile talento dimostrato negli anni.
Dotato di una voce profonda e nasale, che può ricordare quella di Jim Morrison, soprattutto nelle decadenti ballate gotiche di New Death Sensation  e la lunga ed innodica Death Girl (quello che Dax considera il suo pezzo country?!), è in grado di spaziare fra registri dei più vari sino a lambire territori stoner / doom della specie più pregiata come nelle immonde Bleed Me An Ocean e Locust Spawning.
L’elettricità delle chitarre è devastante ed ipnotica e si plasma con le ritmiche solide e tribali della batteria creando una spirale inarrivabile di moderna brutalità (Diab Soule massimo esempio di incontenibile furia tra Black Sabbath, Doors e pura follia!).
Esaltanti le progressioni della furiosa Paegan Love Song con le chitarre super stoner ed i cadenzati ritmi mosh con la voce melodica/isterica di Dax assolutamente irresistibile come anche la crepuscolare ballata Graveflower che alterna momenti bucolici a ciclopici riffs proto-doom di astrale potenza.
Poche bands sono state così complete eccellendo nella continua ed originale alternanza di fasi melodiche a potentissimi gorghi elettrici di super-sludge mammoth riffs che duellano con la voce del posseduto Dax sull’orlo del baratro!
Questo disco è assolutamente incredibile ed è nettamente più riuscito se paragonato al primo album degli Acid Bath When The Kite String Pops (1994) o all’unico album della successiva band di Dax, ovvero l’omonimo Agents Of Oblivion (2000) niente più che discreti esempi di stoner-rock che si disperdono tra le altre uscite.
Altra cosa i successivi Deadboy & The Elephantmen, molto più blues e tradizionali ma assolutamente degni di nota con il loro unico ed ancora freschissimo We Are The Night Sky (su Fat Possum Rec., 2005) ovviamente snobbato da tutti.
Speriamo che in futuro il nostro caro Dax Riggs ci riesca a sorprendere nuovamente con qualcosa di eccitante: stay tuned!



STARLITE DESPERATION - Go Kill Mice
(LP/CD Sweet Nothing)


A parte l’avere scelto uno dei nomi più belli di sempre questa band californiana era in se’ una riuscita miscela di grandi influenze che, in maniera aperta e forse non troppo ricercata, andavano dai Gun Club, ai primi X (di John Doe ed Exene Cervenka) e dai Birthday Party (di Nick Cave) sino ai classici mostri sacri degli anni d’oro (tra rock, tradizione e psychedelia).
Quando hanno registrato il disco in questione risiedevano a Detroit (sono poi ritornati a Los Angeles nel 2002) e sono riusciti nel difficile compito di realizzare nove brani scarni e  dirompenti, come la conclusiva a perdifiato Go Kill Mice, che si fanno sempre ricordare per diversi motivi: il suono è essenziale ma pieno e deragliante (sentite in tal senso lo splendido giro di basso della frenetica ed anthemica Notes From The Drag come i cori della cadenzata danza tribale di Do You Wanna Be There).
Il cantante Dante Adrian White ha una voce nitida e calda che si innesta alla perfezione con la scarna ossatura di un rock dalle forti reminiscenze west-coast di metà anni settanta (quando il punk stava nascendo in tutta la sua incontaminata furia iconoclasta).
Una band fuori dal tempo e da qualsiasi trend che dopo questo esordio ha realizzato altri due trascurabili dischi (Don’t Do Time, 2006 e Take It Personally, 2008), colpi di coda finali prima dell’inevitabile dissolvimento.



FLAKES - Back To School
(LP/CD Dollar Records)


Il manifesto del desiderio di rimanere per l’eternità adolescenti o l’incapacità di diventare adulti vedete un po’ voi.
L’essenza del R’n’R, quindi del Punk…
Se vi è capitato di incontrare Russell Quan (ha suonato con Mummies, Phantom Surfers, Bobbyteens…) allora avete già capito di chi sto’ parlando: di giorno svolge la sua attività di meccanico in un officina di San Francisco e di sera si trasforma in un instancabile agitatore culturale sempre in prima fila ai migliori concerti di tutti i clubs della città (Purple Onion in primis).
La miscela di questo incredibile disco è fatta di entusiasmo, passione, competenza ed adrenalina al 100%!!
Ricordo un loro concerto pazzesco a Benidorm (Spagna) durante uno dei mitici Wild Weekend organizzati da Josh e Babs Collins che si svolgeva in un claustrofobico scantinato, a metà pomeriggio (?!?), con una temperatura, ben oltre una normale sauna, prossima al puro dissolvimento e Russell Quan alla batteria dei suoi Flakes non si è fermato un solo istante collegando i vari brani in un continuo flusso di vibrazioni positive indotte: la chimica del R’n’R!
La competenza ha portato Russell ed i suoi accoliti a scegliere brani da coverizzare come Open Up Your Door (pezzo fantastico di Richard & The Young Lions del 1966) o lo stravagante medley di Shake / Hold On (rispettivamente di Shadows Of Knight / Sam & Dave) senza soluzione di continuità in un cocktail personalissimo ed esplosivo.
Insomma tutto funziona a meraviglia nei quattordici brani di Back To School, tra i migliori Real Kids, i Flamin’ Groovies, gli indimenticabili DMZ e, perchè no, gli onnipresenti Ramones…



BAD LIQUOR POND - Blue Smoke Orange Sky
(LP MT6 Records)


Sono venuto a conoscenza di questa band di Baltimora nel Maryland per puro caso durante una delle mie rare incursioni nel mondo di bandcamp.
Che sorpresa è stata il primo ascolto del loro primo disco Year Of The Clam (2007):
atmosfere dilatate, suoni grezzi ma delicati magicamente cullati in un magma “indie-pop” con frequenti passaggi in territori orientali (utilizzo di strumenti come bouzuki, sitar, tar…).
Ovviamente il passo successivo è stato quello di passare all’ascolto del secondo disco Radiant Transmission (2008) splendido e più asciutto del precedente.
Il terzo ed ultimo disco Blue Smoke Orange Sky (2012) è, se possibile, ancora meglio dei due precedenti (la scelta tra i tre dischi è stata ardua).
Quello che colpisce maggiormente dei Bad Liquor Pond è la capacità di scrivere belle canzoni, semplicemente.
La maggior parte di bands attuali, almeno in questo genere, si preoccupa di avere dei suoni e delle atmosfere molto cool per mascherare l’incapacità di scrivere brani da ricordare.
Ogni brano del disco in questione invece è dotato di una struttura molto solida, nonostante la semplicità, ed è sempre pervaso da melodie dal forte sapore tardo sixties (spesso molto stonate) catapultate magistralmente in un contesto moderno (leggi andatura ipnotica accostabile a cose definite shoegaze con influenze kraute e tipico motorik ritmico costante ma non freddamente metronomico) con suoni sempre molto vintage ma mai troppo puliti.
Come dire, senza essere particolarmente originali, suonano diversi da tutto ciò che ci circonda con una capacità di tenere l’attenzione vigile in qualsiasi momento.
Al centro di tutto c’è sempre la canzone, anche se più lunga della classica canzone “indie-pop” comunemente intesa, con ritornelli dalla forte presa e memorizzazione.
Potrei azzardare dei nomi indicando gli Spacemen Three per le atmosfere ed i ritmi sempre placidi e fortemente oppiacei con però un piglio pop più melodico e voce calda e modulata e chitarra elettroacustica con cadenze in linea con certo garage-psychedelico dei medi sessanta (Chocolate Watchband in primis) ed i suoni molto riverberati e sfasati.
Purtroppo si sono sciolti nel 2014 quindi, prima di salutarli per sempre, mi sembrava giusto cercare di far conoscere il loro non comune talento.


Fabio Reverberend Avaro