Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

domenica 24 luglio 2016

JOE PURDY - Who Will Be Next?
(CD MC Records)


JOE PURDY è il perfetto anti-eroe dei nostri giorni!
Nato in Arkansas, si è occupato di musica sin da piccolo grazie anche alla condivisione pressoché totale con la madre.
Da noi è, come tanti altri, inspiegabilmente assai poco noto nonostante ormai vanti 12 albums nella sua discografia, dal primo omonimo del 2001 sino a quest’ultimo Who Will Be Next?.
Da sempre molto attento alle tematiche sociali e da sempre fieramente autoprodotto ha tenuton il livello di tutte le sue pubblicazioni estremamente alto.
Una sua peculiare caratteristica è stata sempre quella di avere un suono scarno, ridotto all’essenziale, con note studiate e melodie emotivamente intensissime.
Probabilmente i picchi della sua discografia si possono individuare in albums come You Can Tell Georgia (2006) e Take My Blanket And Go (2007) sino ad arrivare a quel capolavoro di minimalismo folk rappresentato da Eagle Rock Fire (2014) ma questo consideratelo un parere strettamente personale e quindi del tutto opinabile.
Di questo nuovo attesissimo disco mi ha colpito immediatamente la dedica all’amata madre scritta nel retro cover dove Joe la ringrazia per averlo convinto a riscrivere completamente questo disco senza rabbia cercando di guardare il mondo attraverso gli occhi della compassione. “…mi hai insegnato più di quanto tu potrai mai sapere…”.
Tanto per farvi capire a che livello di intensità e del tipo di emozioni che Joe e la sua musica sono in grado di far affiorare…
Lo ritroviamo, sin dall’iniziale New Year’s Eve, in forma smagliante con una strumentazione leggermente allargata (l’uso dell’organo, naturalmente Hammond B3 valvolare di Phil Kronengold in evidenza) ma senza preder nulla del pathos che da sempre lo accompagna.
Il brano che dona il titolo a questo disco è, a mio modesto avviso, uno dei picchi di tutta la sua produzione: la strumentazione in questo caso può contare anche su uno splendido violino (Scarlet Rivera) che si intreccia a meraviglia tra organo e chitarra nel tessuto malinconico di melodie evocative che lo caratterizzano.
Children Of Privilege si appoggia su un ossatura scheletrica ed acustica dove è la voce, spesso padrona incontrastata della scena, al centro della narrazione: la voce nitida e pastosa al tempo stesso di Joe che riflette a cuore aperto sulla condizione dei ragazzi di oggi, inconsapevoli ed ignoranti di ciò che gli appartiene.
Kristine, con una splendida pedal steel (Chris John Hillman) in evidenza rimanda direttamente alle migliori pagine del folk delle golden era regalandoci un brano memorabile.
La dolce e pizzicata Cursin’ Air, notturna e rarefatta, prosegue il cammino ammaliando con arpeggi che si perdono nella memoria di tempi andati per sempre.
Memorabile anche l’inserto di violino presente in Cairo Walls che di snoda su temi cari al nostro con una trama musicale tra country e folk.
Giusto per dirvi che Joe Purdy è un musicista certamente di nicchia ma che può vantare downloads per circa un milione di persone ed è rimasto la persona semplice e con i piedi per terra di sempre.
ASCOLTARE I MIEI FRATELLI E LE MIE SORELLE SIMILI / SMETTERE DI COMBATTERE I VOSTRI VICINI / IMPARARE AD AMARE UN ALTRO PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI / INIZIARE A LAVORARE INSIEME PER SALVARE IL NOSTRO PAESE… Con queste parole finisce My Country, brano country di rara intensità, ed il disco in questione.


Senza dubbio alcuno, uno dei dischi dell’anno!


Reverberend

THE SHELTERS - The Shelters
(CD Warner Bros. Records)


Spesso dietro ad ogni band c’è una storia romantica ed avventurosa che ne crea un hype spesso nettamente sopra ad ogni concreta aspettativa: la storia degli Shelters è iniziata quando Josh Jove e Chase Simpson sono stati coinvolti a contribuire alle registrazioni di Hypnotic Eye, ultimo album accreditato a Tom Petty!
Poi Tom Petty ha assistito ad un loro show in quel di L.A. e ne è rimasto talmente impressionato che ne ha voluto produrre l’E.P. di debutto ed anche questo primo intero album che esce nientemeno che per il colosso Warner Bros..
Inutile dire che le aspettative sono davvero alte per loro.
Già da Rebel Heart, ovvero l’opener dell’omonimo debutto, si intuisce la caratura della band con un jingle-jangle di Byrdsiana memoria riesce ad imbastire delle melodie irresistibilmente catchy e perfettamente in linea con quanto creato nei momenti migliori della carriera dal loro mentore Tom Petty.
Un suono certamente debitore di tanti riferimenti al passato, dai già citati Byrds ai Kinks della splendida cover, l’unica presente (Nothin’ In The World Can Stop Me Worryn’ Bout That Girl direttamente da Kinda Kinks secondo splendido album della band inglese targato 1965!) tra i tredici brani che compongono The Shelters, per arrivare agli immancabili Stones e Who degli anni settanta.
Insomma un suono vintage, sicuro e di presa immediata (tra le melodie anthemiche di Birdwatching ,Liar o le sinuose escursioni elettriche ed elettro-acustiche della psychedelica Surely Burn non c’è che l’imbarazzo della scelta) con una voce nitida e strafottente e le chitarre sempre in primo piano nella più solida tradizione rock’n’roll americana.
Per rimanere più vicino a noi temporalmente provate ad immaginare un riuscitissimo incrocio deragliante tra gli Strokes del primo e migliore Is This It ed i Black Keys freschi e dirompenti, oggi purtroppo irrimediabilmente persi, di Rubber Factory del lontano 2004.
Davvero difficile trovare alcun difetto in questo FOLGORANTE debutto, meglio godere di ogni singolo istante di tanta grazia.
Memorabile anche la meditabonda e rallentata melodia della ballata, dapprima semi-acustica, The Ghost Is Gone che poi sfocia in controllate esplosioni elettriche davvero travolgenti ed il sogno continua per cinque minuti e quarantaquattro secondi di pura magia.
L’evocativa e sentimentale Gold prosegue sulle ali di melodie perfette con la voce che si incastra tra gli arpeggi sapientemente riverberati ed il mid-tempo metronomico che ne accompagna il cammino in terre ora anglosassoni, nuovamente di Kinksiana memoria.
Si salta poi sul treno impazzito di fremente rock di Never Look Behind Ya veloce e saltellante come la ritmica che ne decreta la direzione ed il punto di arrivo da ricercare in certe cose degli anni ottanta, questa volta, ma quelli buoni del migliore sound di terra albionica.
Come non rimanere incantati di fronte alla fiaba pop-psychedlica in technicolors di Dandelion Bridge, delicata e sognante, tra gli arpeggi acustici in punta di dita e le melodie scolpite magistralmente.
Insomma davvero una continua sorpresa che non ci abbandona sino alla finale Down dove l’inappuntabile refrain rimane impresso in maniera definitiva nella memoria.
Il disco si chiude nella maniera migliore tra le spumeggianti onde ed i ricordi del migliore surf-strumentale di inizio anni sessanta con la traccia nascosta che, se ce ne fosse ancora bosogno, sottolinea la linea netta che tiene i quattro ragazzi ancorati ad un glorioso passato ma con i piedi ben piantati nel mondo moderno.
Ora la band sta’ accompagnando, come opener, i Mudcrutch di Tom Petty in tour promozionale per il loro 2.


Ne risentirete parlare, credetemi!!


Reverberend

VELVET MORNING - Gorilla
(LP Exag Records)


Giornata estiva uggiosa, mi rilasso sentendo uno degli ultimi acquisti preso un pochino a sorpresa perché sapeva di buono… La cover misteriosa e sensuale e chissà… Ogni tanto mi piace essere totalmente sorpreso.
Un po’ come un bambino.
L’atmosfera fragile e sognante dell’iniziale, splendida, Go Cry To Yer Mama ci introduce nel piccolo mondo intimo e sognante del londinese Samuel Jones, ventenne precocemente innamorato di David Lynch ed Angelo Badalamenti in primis.
Il suono, magico e soffuso dei brani, come ovattati, con sensuale ed avvolgente voce ed intrisi di spezie psichedeliche che fanno pensare a dei Mazzy Star in forma smagliante e con ancora Kendra Smith alla voce.
Un sogno che si dipana senza alcun cedimento tra le sciabolate di chitarra ultra-riverberata di Art Collector (l’unica traccia non morbida ma densa e soffusa e per nulla fuori luogo), le rarefatte note della poesia filtrata attraverso le nuvole e densa di plumbei presagi di Paranoia e passa attraverso le circolari elucubrazioni con sferzate noisy della successiva Hedgehog .
Tutti i brani hanno un invidiabile hook pop senza essere assolutamente commerciali, nel senso più comune del termine!
Bad Seed, tra singulti vocali e cadenzati giri di chitarra ci accompagna sino ai morbidi accordi in levare della crepuscolare Magpie Magic che è come un puro ed innocente sogno ad occhi aperti.
La finale Chad’s Dream, lenta e fluttuante, segna e rimarca la bellezza di un prodotto semplice, profondamente moderno sebbene paisley fino al midollo, ma certamente non comune; un disco che si potrebbe ascoltare all’infinito e sorprende ogni volta per la freschezza e la melodia oltre alle atmosfere seppiate ed ai richiami della marea e dei gabbiani che chiudono con un’irresistibile voglia di ricominciare tutto da capo… Che bella sensazione rigenerante!!!



                                                                      Reverberend


mercoledì 20 luglio 2016

THE LITTER - Emerge
(CD Purple Pyramid / Cleopatra Records)


I Litter sono nati dalle ceneri di due popolari bands di Minneapolis: i Victors ed i The Tabs, nell’anno di grazia 1966!
Un po’ come tutte le bands di quel periodo sono stati influenzati pesantemente dalla Bristish Invasion come si evince dall’immortale loro primo singolo, realizzato alla fine di quell’infuocato anno, Action Woman / A Legal Matter (incredibile hit nell’olimpo del garage-punk per l’eternità).
Nell’estate del 1967 hanno realizzato il loro primo splendido album Distortions sulla stessa lunghezza d’onda e poi, nel 1968, $100 Fine che induriva il suono in direzione freakbeat / pre-hard.
Il loro vero e proprio capolavoro, il primo con una major (ABC / Probe Records) e con una formazione stabile che faceva davvero scintille è indubbiamente Emerge, realizzato nel 1969 e decisamente orientato verso territori più duri e diretti, meno influenzato dalle pur bellissime renditions come I’m a man (brano firmato da Bo Diddley e hit R&B datato 1955), Hey Joe (ricordata la versione di Jimi Hendrix anche se i Leaves in precedenza, 1965, l’avevano registrata con il titolo di Hey Joe, Where You Gonna Go in una versione decisamnete più folk-rock) e ricordiamo anche gli oltre nove minuti ad alto voltaggio di She’s Not Here di Rod Argent presenti nel secondo album pocanzi citato.
Il suono dei Litter da questo momento si evolve verso forme più libere di spaziare in territori free-form-acid-proto-hard-rock più in linea con quanto stavano facendo anche i fantastici Cream sull’altra sponda dell’Atlantico ed i Blue Cheer che ponevano solide basi di tutto ciò che è venuto dopo in ambito di rock duro.
L’inizio con Journeys è uno shock: una spirale progressiva con la voce stridula e gracchiante di Mark Gallagher e prolungate note con acidi assoli di Ray Melina a dominare le danze seguiti da un iperbolico fuzz-bass (Jim Kane) e dagli incessanti cambi di ritmo di Tom Murray sempre all’altezza della situazione, anche nella dirompente Feeling, complessa e feroce!
Silly People inizia dolce e jazzata con voce epica e melodiosa che ci trasporta in un bellissimo excursus dagli echi più europei e progressivi sino all’assolo centrale che spalanca le porte ad un suono più duro e deciso.
Blue Ice si apre a suoni tipici di ciò che stava accadendo a Detroit, nei quartieri più degradati, con band tipo i Third Power che, nello stesso periodo, stavano preparando il loro capolavoro Believe (uscito su Vanguard Records nel 1970) con simili coordinate.
For What It’s Worth, firmata da Steven Stills con i suoi Buffalo Springfield, in questa occasione è molto più acida e dinamica senza però perdere nulla della stupenda melodia che l’ha resa immortale.
Si prosegue con una sontuosa e tirata cover di Little Red Book (originariamente firmata da Burt Bacharach ed in seguito filtrata dall’incatalogabile tocco di Arthur Lee e dei suoi magnifici Love).
Il libero e magico volo e l’abbattimento di ogni confine sino ad allora noto raggiungono la loro forma compiuta negli abbondanti dodici minuti di Future Of The Past dilatati abilmente da sconvolgimenti elettrici e continui cambi di tempo che ci disorientano e catapultano in un colorato mosaico lisergico: in questo lungo brano tutti i componenti della band danno il loro meglio compreso l’assolo di batteria in stile Ginger Baker.
On Our Minds è l’unica bonus-track, posta in chiusura, presa da un singolo dell’epoca ed è un perfetto esempio di heavy-psychedelia.
Emerge, un disco oggi considerato un classico ma per molti ancora poco noto che merita tutta la vostra attenzione!


                                                              Reverberend

LUNAR DUNES - Galaxsea
(CD 4 Zero Records)


Ad essere completamente sincero mi sono imbattuto in questo gioiello per puro caso: il bello della tecnologia è che succedono anche cose piacevoli come questa!
Beh, sono rimasto attonito dalla bellezza dei brani ed al tempo stesso dalla sua difficoltà di catalogazione: due caratteristiche non proprio comuni oggigiorno (a proposito, il disco in questione è uscito nel 2011, ma non era possibile non parlarne considerato che nessuno l’aveva fatto all’epoca!!!).
Ho scoperto che dietro a tutto questo progetto c’è Lee Hamilton, ovvero il percussionista dei Transglobal Underground (con, tra gli altri, Natacha Atlas), classe 1958, musicista di esperienza che travalica stupide divisioni inter-generis.
Oriental Pacific, l’opener, è una dolce ninna-nanna in vellutata salsa Krauta, tenera ed oppiacea, con riverberi ed echi che si perdono in un mare di stratificazioni melliflue.
Oh You Strange Tune, sommersa da echi dub e propulsioni armoniose splendidamente sovrapposte, ci accompagna tra le dune lunari della loro sigla: mi ha vagamente ricordato le pagine più avventurose degli inglesi, non allineati, Moonshake (i primi).
Pharoas Dream dalla ritmica quasi drum & bass è sinuosa e sostenuta ma priva di agganci alle altre sonorità del periodo: sospesa come in assenza di gravità!
I gorgheggi orientali, dapprima insistenti, nella delicatezza di Aya si perdono nella serrata ritmica percussiva e nelle lame elettriche di chitarre sino al dissolvimento.
La lunga Svalbard , semi-acustica, con sussurri vocali e tappeto di tablas che sospingono le note in un labirinto malinconico e riflessivo con l’innesto di sincroniche e circolari sovrapposizioni dissonanti raggiunge lo zenith emotivo e si spinge oltre con un sensuale ed obliquo sax che accarezza la luna.
L’ipnotico basso di Free To Do accompagna le escursioni spacey della chitarra e le contrazioni vocali in un oppiaceo profumo di oriente che ci rapisce completamente nei delicati richiami di Eastern Promise dove spezie di sax-free e cascate di note notturne e salmodianti danno luogo a visioni mistiche di inusitato splendore sino all’oasi di piacere generata dall’incontaminata bellezza di Off World Beacon.
Dopo aver ascoltato un disco del genere si possono fare tante considerazioni sul fatto che praticamente nessuno ne ha mai parlato: semplicemente non è ammissibile che degli appassionati di musica manchino l’incontro fatale con un progetto così affascinante e misterioso.
Pura poesia da universi paralleli: oggetto fluttuante non identificato.


                                                           Reverberend 

THE MISSING SOULS - The Missing Souls
(LP Dangerhouse Skylab)


Ve li ricordate i fantastici Detroit Cobras, svalvolati derelitti che andavano a cercare il pelo nell’uovo ripescando oscure gemme soul e r&b del passato d’oro e le ripassavano a dovere con una voce sensuale e sboccata da abusi di ogni tipo di sostanza illecita con chitarre pastose, di lezioni punk ’77, e tutto il resto?
Avrebbero potuto essere in ogni casa (con tanto di pubblicita’ della coca-cola inclusa, la loro cover di Cha Cha Twist contenuta nel capolavoro Mink rat or rabbit  loro esordio del 1998 sull’ormai defunta Sympathy For The Record  Industry del cinico Long John Gone) ma, essendo loro completamente allo sbando non sono riusciti a gestire nulla. Boom!!
Bene, questo per introdurvi i francesi Missing Souls che non vogliono assolutamente comporre originali ma vogliono riproporre oscuri brani recuperati dalle catacombe, di origine soul e r&b, shakerarli con dosi massicce di filologico suono garage medi sessanta americano e godere di tutto questo. E noi con loro…
Inutile comporre brani nuovi quando la maggior parte della gente non conosce ancora praticamente NULLA dei tesori passati e come dargli torto…
Dopo svariati 45 giri eccovi il loro LP d’esordio è una boccata d’ossigeno a pieni polmoni pur attingendo a piene mani dal passato: l’attitudine   è saldamente ancorata al presente, i suoni vintage ed analogici ci assicurano invece il calore valvolare d’altri tempi!
Miscela perfetta!
Giusto per farvi capire, anche se non servirebbe altro…
Si inizia con la palpitante You just gotta know my mind, splendido esempio di drivin’soul da un raro 45 giri del 1966 (su Knappupp Rec.) accreditato a tale Donovan Phillips Leitch che la band francese riesce a far luccicare con riffs alla Who mischiati a grooves irresistibili!
Poi è il turno di Up there, originariamente degli Scoundrels (45 giri del 1966 su ABS REC.), per la quale l’apporto dell’organo è sostanziale ed il giro di basso indimenticabile!!!!
Go away, arriva direttamente da una favolosa compilations dei medi ottanta, edita dalla francese EVA records (New Mexico Punk from the sixties) e accreditata a Steve Erickson ed i suoi Plague: PURO NETTARE SIXTIES PUNK!!!
Si passa poi a I’m gonna destroy that boy delle What Four, combo di sole donne (1966), splendido mid-tempo sospeso magicamente tra garage e soul.
Little white lies, anno 1966 dei Painted Ship e, per chi se lo ricorda, presente nell’immortale Here are…. primo album dei Chesterfield Kings del 1982 (neanche a farlo apposta, altro album composto da sol,e ed al tempo misconosciute, covers di puro sixties-punk): la perfezione, voce e singiozzi inclusi, ASSOLUTA!!!!!
Insomma, avrete capito, non si può proprio farne a meno…
E-S-S-E-N-Z-I-A-L-E!!!!!


                                                              Reverberend

THE NAZGUL - The Nazgul
(CD Psi-Fi Records)


Prima di parlare di questo disco occorre fare una premessa: la versione ufficiale narra che venne pubblicato nel 1976 dall’etichetta Pyramid in soli 50 esemplari. I rumors del web insinuano che si tratti invece di un falso: sarebbero in realtà registrazioni degli anni ’90 effettuate da sconosciuti musicisti tedeschi. Qualcosa di non chiaro in effetti c’è: tutti i dischi ristampati dalla label Psi-Fi Records furono in origine pubblicati dalla fantomatica Pyramid; di alcuni di essi si hanno conferme storiche che ne confermano l’autenticità (Galactic Explorers, Temple, Cozmic Corridors), su altri titoli, invece, permangono dei dubbi: questo e Orion Awakes dei Golem soprattutto. Fatto sta che queste dicerie hanno fatalmente incrinato la reputazione della Psi-Fi, portandola ad una prematura cessazione di attività. A ben vedere siamo comunque nel campo delle ipotesi e in fin dei conti quello che ci interessa è la musica, e in questo album se ne trova di meravigliosa.
“Il loro nome significa Spettri dell’Anello (dalla lingua nera di Mordor: nazg, anello e ul, spettro; furono chiamati anche Ulairi, Spettri del Male, dai Noldor e dai Numenoreani); erano in origine nove re degli uomini (tre dei quali grandi signori di Numenor) a cui Sauron donò nove Anelli del Potere impregnati della sua volontà, facendoli così cadere uno ad uno sotto il potere dell’Unico Anello. I Nazgul non fanno più parte del mondo sensibile, ma non appartengono al mondo dei morti quanto piuttosto al regno delle ombre, sospesi tra questo mondo e l’aldilà: sono infatti visibili solo quando indossano dei vestiti, [occhio alla copertina...] che però sembra ricoprano il vuoto” (Wikipedia).
Tutto, in questo lavoro, si ricollega alla mitologica saga del Signore degli Anelli di Tolkien; persino gli pseudonimi dei musicisti coinvolti (Frodo, Gandalf e Pippin), una pratica che in anni successivi sarà utilizzata spesso (pure troppo) da gruppi di area heavy metal, Blind Guardian o Summoning per fare due nomi; ma che nel 1976 non era certo consueta. Attenzione, però: qui non si evoca la Terra di Mezzo secondo la visione di un Bo Hansson, come una specie di Paradiso hippie visto attraverso lenti psychedeliche.
Qui si mostra il lato più oscuro e sinistro della faccenda, basta elencare i titoli dei quattro lunghi brani del disco: The Tower Of Barad-Dur, The Dead Marshes, Shelob’s Lair e Mount Doom.
I primi nomi che vengono alla mente ascoltando The Nazgul, sono quelli di Tangerine Dream e Sand. Dei primi ricordano certi passaggi epoca Alpha Centauri, Atem e Zeit, sia pure spogliati dell’afflato cosmico; dei secondi l’impatto minaccioso e incombente del suono. Non sbaglia chi parla di dark ambient ante litteram, effettivamente in alcuni momenti sembra di ascoltare i Throbbing Gristle di Heathen Earth o certi darkscapes di Lustmord!
La strumentazione utilizzata è prevalentemente acustica, ci sono anche delle campane tibetane e manipolazioni di chitarra e tastiere tutt’altro che banali; anche i rumori concreti concorrono all’insieme in modo organico e affascinante.
In conclusione: ecco un’altra gemma oscura proveniente dall’underground tedesco dei Seventies, se ascoltato con orecchie aperte e mente curiosa The Nazgul vi porterà in un mondo tenebroso e terribile, una dimensione altra e sorprendente. Non resistete oltre: Sauron vi sta chiamando…

Edvard von Doom


martedì 19 luglio 2016

SCREAMIN' JAY HAWKINS AND THE FUZZTONES - Live
(CD Cleopatra Records)


Nel lontano 1985 c’è stato un incontro perfettamente riuscito tra un’icona della musica nera più perversa e tribale che risponde al nome di Screamin’ Jay Hawkins (attivo sin dalla metà degli anni 50’ ed autore, tra le altre, della notissima I put a spell on you rifatta un po’ da tutti i grandi della nostra musica) e gli alfieri del garage rock più depravato del pianeta (per chi ancora non li conoscesse un perfetto incrocio tra i Doors ed i Music Machine) quali erano e sono (ascoltate pure il loro ultimo e splendido Preaching to the perverted) i mitici Fuzztones di Rudy Protrudi!
Ciò che accomuna questi artisti è senza dubbio l’immaginario macabro e voodoo (basta ammirare la splendida cover di questo disco live) e tutta la trash culture anni 50’ e 60’ derivata da innominabili b-movies ( dai quali mister Tarantino e Rodriguez hanno costruito la loro carriera di registri) che si sono impressi indelebilmente nelle menti di tutte le persone coinvolte in queste losche lande sonore.
Era da molto tempo che questa infuocata esibizione mancava dal mercato è quindi con notevole sorpresa e piacere che oggi arriva questa ristampa rimasterizzata ad arte con la preziosa aggiunta di ben cinque inediti live dei Fuzztones in forma smagliante (originariamente la Midnight Records di J.D.Martignon aveva prodotto un mini-LP di quattro soli brani) per trentacinque minuti abbondanti di musica.
A farla da padrone è l’incredibile capacità di coinvolgimento del trascinatore di folle Jay Hawkins e della sua carica adrenalinica sempre sopra le righe di selvaggi rhythm and blues (sentitevi i grugniti di Constipation blues) con il funereo ritmo lento di maracas distrutte e armonica dall’oltretomba.
Facile immaginarlo on stage con i suoi travestimenti che anticiparono lo shock rock teatrale di Alice Cooper, i suoi eccessi vocali quasi operistici ed il suo inseparabile piano.
L’esperienza live è un flusso ininterrotto, dall’iniziale Alligator wine alla finale Constipation blues, di declamotorie provocazioni vocali supportate dagli ipnotici ritmi tribali e dalle sventagliate elettriche di chitarra che ci accompagnano in questo vero e proprio rito propiziatorio voodoo.
Niente da aggiungere riguardo ai cinque brani live inediti dei Fuzztones con classici quali Gloria e She told me lies (Greg Prevost docet) su tutti eseguiti con la solita carica che li contraddistingue e con i suoni vintage in linea con quelli originali.
In ogni caso musica senza tempo: dai sixties al primo ritorno negli eighties (con bands incredibili come Fuzztones, Chesterfield Kings, Unclaimed, Miracle Workers………) sino ad oggi con inalterato stupore e carica intrinseca tipica del r’n’r in tutte le sue forme non evolutive ma con i suoni primordiali più legati all’istinto animalesco che è da sempre in ognuno di noi. Semplicemente eterni!
                                       
                                                                  Reverberend
AA.VV. - Another Splash Of Colour, New Psychedelia In Britain 1980-1985
(3CD Cherry Red Records)


All’inizio degli anni ottanta in Inghilterra c’era una strana situazione musicale sia a livello indipendente sia a livello major: il punk (Sex Pistols, Clash, Damned,….) ormai era stato assorbito ufficialmente dal sistema massificato delle multinazionali ed aveva perso completamente tutto il suo potere eversivo e si stavano creando alcuni interessanti sviluppi postumi che, storicamente, siamo soliti definire post-punk unitamente ad un certo recupero di sonorità rivolte al passato degli anni d’oro (1967 / 1968) con uno sguardo speciale alla psychedelia filtrata attraverso una personalità tutta inglese con molto humor ed appeal pop con aromi new-wave ancora ben presenti!
Per cercare di fotografare perfettamente questo periodo confuso ma di particolare fermento la multinazionale WEA nel 1981 ha dato alle stampe un vinile (A splash of colour)che comprendeva tutti i maggiori artisti che operavano in Inghilterra all’epoca ed includeva tutti gli aspetti di questa anomala situazione: si passa dagli emergenti High Tide, eccellente meteora indie-psycho-pop da non confondere con i più titolati e seminali pionieri progressivi di psychedelia dura capitanati da Tony Hill quindici anni prima, ai sapori decisamente più pop-psychedelici con connotazioni crepuscolari dei Mood Six allo humor tipicamente inglese dei più originali Times e del loro bizzarro leader Ed Ball sino ad arrivare ai più garage-beat Barracudas ed ai più fortunati del lotto Doctor & the Medics (chi non ricorda il tormentone dai forti sapori sixties Spirit in the sky?).
A quei tempi tutto girava intorno a clubs come il Groovy Cellar che aveva aperto a Londra in Kings road e successivamente l’Alice in Wonderland, nella stessa sede, che ne ereditò il pubblico ed a negozi vintage come il Regal in Kensington Market dove venivano riprese con molta passione le forme ed i colori che erano appartenuti a Mary Quant, Barbarella ed Emma Peel due decenni prima.
Si respirava un’aria fresca e nuova anche se permeata di riferimenti di un’altra epoca ed una moltitudine di pubblico ricettivo seguiva con interesse le vicende legate a figure centrali come quella di Anne-Marie Newland che gestiva Sweet Charity (una sezione all’interno di Regal), ed a quel tempo era la partner del proprietario e designer della boutique Andrew Yiannakou, nonché suonava anche la batteria negli High Tide, ovvero una delle band di punta di quell’epoca piena di gioia e colori.
Il negozio si è costruito una reputazione invidiabile intorno ad artisti come Bono, Anne Lennox, Paul Weller, Paul Young che passavano e compravano i loro vestiti molto cool e venivano fotografati dall’affermato Ted Polhemus in quel momento famoso street-fashion osservatore e sostenitore della causa.
Oggi, in tempi di ristampe ed approfondimenti, la Cherry Red Records ha pensato di assemblare uno splendido box triplo (64 tracce in totale e tutte per la prima volta su cd!) per riassumere ed espandere in maniera esaustiva l’ondata di revival psychedelico inglese di inizio anni ottanta già contemplata parzialmente in A splash of colour nel 1981.
La maggior parte degli artisti presenti ricorda molto da vicino le atmosfere tipiche di etichette d.i.y. del periodo come la Postcard Records (Aztec Camera, Josef K e Orange Juice tra le bands più note nel suo esile catalogo) che ha iniziato e concluso la sua attività all’inizio degli anni ottanta ma ha lasciato un’impronta indelebile nel sentiero proseguito con notevoli risultati da altre etichette come la Sarah Records e, all’inizio, la più nota Creation Records di Alan McGee (produttore che ha lanciato Jesus & Mary Chain, Primal Scream ed Oasis tra gli altri!!) presente in questo box con il seminale hit dei Revolving Paint Dream del 1984 Flowers in the sky.
Ci sono poi, tra le aggiunte più meritevoli, perle come la versione dei Damned, sotto il falso nome di Naz Nomad & the Nightmare, di I have too much to dreams (last night) (originariamente degli immensi Electric Prunes), il primo bellissimo singolo dei Green Telescope, Two by two, di Lenny Helsing (futuro leader dei fantastici Thanes), ci sono anche i Prisoners (ovvero gli Oasis qualche anno prima della loro nascita con più grinta e con molta meno fortuna!) con Reaching my head, prezioso brano tra garage-beat e psychedelia presente originariamente in un raro E.P. del 1984 condiviso con Sting-Rays, Tall Boys e Thee Milkshakes del mitico Billy Childish ed uscito su Big Beat Records.
Ci si perde piacevolmente in questa colorata giostra di memorie new wave, power pop, psychedelic rock e mod revival ricordando che anche nel Regno Unito in quegli anni c’era parecchio movimento


                                                                          Reverberend



ARCHAIA - Archaia
(LP Autoprodotto)


A metà degli anni ’70, tre ragazzi francesi appassionati dei Magma (Pierrick Le Bras chitarre, tastiere e voce; Michel Munier, basso; Philippe Bersan, voce, tastiere e percussioni) decidono di formare un gruppo, e hanno da subito una visione ben precisa di quella che dovrà essere la loro musica. Niente batteria, solo qualche percussione, il resto è appannaggio di chitarre, basso e tastiere.
L’unico disco autoprodotto e che porta il loro nome è datato 1977. Ancora oggi risulta essere il più incredibile artefatto sonoro emerso da tutto l’underground francese di quegli anni. Nel corso del tempo gli Archaïa sono stati accostati ai vari Univers Zero, Jade Warrior, Arachnoid, King Crimson (epoca Red), Heldon e ovviamente Magma. A conti fatti, però, l’universo poetico del gruppo è distante anni luce dalle band sopra elencate. Io piuttosto citerei i Chrome, per dire.
Come succede sempre, quando si tratta di visionari che si proiettano ben oltre i limiti del proprio tempo, il disco vendette davvero poco (la maggior parte delle copie venne distribuita dal gruppo stesso durante i concerti) e, altrettanto ovvio, oggi gira a cifre iperboliche nel circuito dei collezionisti. La leggenda narra che vennero registrati dei nastri contenenti materiale sufficiente per un secondo album, ma all’inizio degli anni ’80 pare che Le Bras abbia venduto i nastri al mercato delle pulci! Dato che gli altri componenti del gruppo non possedevano altre copie, ormai il famigerato master tape sembra perduto per sempre.
Archaïa è un album scurissimo, sfuggente e dannatamente inquietante. Si potrebbe definire horror music, ma senza neanche un singolo cliché che il genere prevederebbe. Ogni brano è immerso in una atmosfera gelida, spersonalizzata (in questo anticipatrice di successive istanze cold/dark wave), dove i testi abbondano di richiami all’esoterismo più ermetico e sotterraneo. Se per i Neu! e altri eroi tedeschi si parla di motorik, in questo caso verrebbe da coniare il termine robotik…
Il disco si apre con Soleil Noir, che comincia con voci di bambini e suoni che pulsano minacciosi sul fondo finchè un ritmo quasi da treno non sale in cattedra, accompagnato da synths spaziali e gelidi, le chitarre sono tremendamente fuzz e grintose, il basso pulsa che è un piacere. La successiva L’Arche des Mutations è immersa in un mood krautrock (Harmonia?), grazie ai suoni acuti e pulsanti, i sintetizzatori spaziano da tonalità alte a suoni bassi, quasi gutturali; la voce intona melodie alternate a recitativi, un brano intenso e bellissimo. Sur Les Traces Du Vieux Roy è guidata da tastiere che sembrano bisbigliare come fossero voci, in una bolla di suoni pulsanti e riverberanti. La Roue ha profondi suoni di basso, percussioni e synths liquidi e oscuri, al suo interno una risata va e viene come in un incubo agghiacciante. Ogni brano meriterebbe una citazione, il livello qualitativo è sempre altissimo, Massa Confusa ha un’introduzione da casa infestata, piena di suoni elaborati e acquatici, anche dopo l’ingresso della voce l’atmosfera resta plumbea e claustrofobica. A tratti le percussioni generano un clima quasi tribale, ritualistico, anche se non saprei dire da quale pianeta arrivi la suddetta tribù. Nella ristampa in cd pubblicata dalla Soleil Zeuhl nel 1998 ci sono tre bonus tracks, di cui due dal vivo e con Alain Evrard (tastiere e percussioni) e Patrick Renard (batteria) al posto di Philippe Bersan. Robots Dans Le Formol ha un ritmo portentoso e davvero in anticipo sui tempi, da brividi lo scambio voce-tastiere.
Ascoltando gli Archaïa si ha la strana sensazione di trovarsi all’interno di una fiaba corrotta, degenerata in incubo, dove tutti i riferimenti vengono perduti o sovvertiti. Se l’effetto è questo ai nostri giorni, vengono i brividi a pensare cosa suscitava il suo ascolto nel 1977!
Erano assolutamente originali e senza veri paragoni (se non solo successivi), sventurati e paradossalmente ancora oggi considerati derivativi a causa della distribuzione postuma avuta dal disco. In realtà gli Archaïa furono pionieri della specie più luminosa (si trovano anche nella famosa lista di dischi apparsa sul primo album dei Nurse With Wound, e Steven Stapleton se ne intende…) al pari di altri nomi più conosciuti.
Persino il logo con il nome che fronteggia la copertina è in anticipo sui tempi: ad un occhio attento non può sfuggire la somiglianza con quelli adottati dai gruppi black metal dagli anni ’90 in poi.
L’aura maledetta che ha sempre circondato il gruppo ebbe un’ulteriore, tragica conferma tre anni dopo l’uscita del disco; il bassista Michel Munier si toglie la vita, mettendo definitivamente la parola fine alla storia degli Archaïa.
Antonello Cresti, nel suo Solchi Sperimentali (Crac Edizioni) definisce questo album “un parallelo nusicale del romanzo Il Mattino dei Maghi di Pauwels e Bergier”, davvero non si potrebbe trovare una definizione migliore.
Se ci riuscite, fate vostra questa distopica perla perduta nei gorghi dello spazio tempo, non ve ne pentirete affatto, potete credermi.


Edvard von Doom