STRICTLY CONFIDENTIAL
Mindblowing Sounds From The Dark Places
Impossibile avere la pretesa di poter ascoltare il meglio di
ciò che succede nel mondo musicale oggi! Nel mare magnum di
incontrollato/incontrollabile flusso di uscite segnalate e riscontrabili in
veri e propri mostri come Spotify e Bandcamp, oggi spazi/motori assolutamente
essenziali per avere un occhio vigile su ciò che succede “sottoterra”, non ci
si può concedere nessuna distrazione… Less is more… Ricordo, senza nostalgia
beninteso, che negli anni della mia adolescenza (quindi i famigerati anni ’80)
le notizie su ciò che succedeva nel campo musicale si potevano avere su riviste
indipendenti ma ufficiali come Rockerilla (l’unica che trattava la musica una
volta veramente alternativa al mainstream) oppure, per quanto riguardava il
PUNK, su innumerevoli fanzine (ne facevamo anche noi due chiamate BLAST OFF! ed
un mio caro amico si occupava di DECONTROL) che recuperavo al Virus durante i
frequenti concerti a quei tempi completamente autogestiti ed organizzati e da Virus
Diffusioni in via Orti a Milano che però avevano uscite, dati i mezzi
scarsissimi, obbligatoriamente a dir poco irregolari e quindi erano sempre
inevitabilmente in ritardo rispetto a ciò che succedeva nella realtà.
C’era proprio un diverso rapporto con il tempo, non era ne’
meglio ne’ peggio di ora, semplicemente diverso.
Si andava in un noto negozio di importazione vicino Varese
(dove tutt’ora abito) ancora oggi in piena forma e ci si ritrovava a vedere i
45 giri appesi alle pareti e così si veniva a conoscenza delle nuove uscite
inglesi ed americane: sembra di parlare del periodo paleolitico invece sono
passati “solo” 30 anni! Pazzesco…
Oggi anche il ruolo della critica (riviste, blog, forum e siti
vari…….) è cambiato completamente dovendo per forza di cose scegliere/filtrare
in un oceano di illimitate possibilità.
L’acquisto di un disco è rimasto sempre un gesto speciale
anche dopo tutti questi anni: la scelta, oggi possibile anche dopo aver
assaporato qualche nota che permette di evitare in senso assoluto cattive
sorprese, è comunque difficile di fronte a tale maestosa quantità.
Poi c’è anche il mercato ed il marketing ad esso correlato
che immettono regolarmente in circolo prodotti e riedizioni, cofanetti relativi
ai conclamati capolavori unanimemente riconosciuti in forme nuove o perlomeno
atti a scavare ed a dare un senso compiuto a questi dischi indispensabili.
Prendiamo ad esempio, per parlare di dischi storicamente
rilevanti, della bootleg series di Bob Dylan: The Cutting Edge: 1965/1966 The Bootleg Series vol.12 (6 CD).
Si parla, come noto, delle leggendarie sessions che hanno
partorito la trilogia incredibile di Bring
It All Back Home, Highway 61 Revisited
e Blonde On Blonde.
Si analizza il work in progress, come l’elettricità presente
in questi magici solchi abbia riscritto la storia della musica tradizionale
americana, come la fatica e l’imperfezione (ricordo che in un cd del box ci
sono 20 versioni, dicesi venti, di Like A
Rolling Stone!?!) abbiano portato alla, quella sì, perfezione formale dei
dischi ufficiali pocanzi citati.
Non posseggo questo box, nonostante riconosca l’assoluta
eccellenza degli originali che ho letteralmente consumato nel corso degli anni,
perché non mi interessa affatto analizzare e decostruire nulla.
Ho fatto l’esempio di Bob Dylan perché oggi è sulla bocca di
tutti ma potevo fare lo stesso con qualcosa di più vicino a noi “sotterrati”
come le sessions complete di Raw Power
degli Stooges: stesso discorso per quanto mi riguarda; non mi interessa ascoltare
ripetutamente l’evoluzione di nulla.
Personalmente è un discorso più di pancia e di cuore che non
di testa.
Giusto per dire che invece ho comprato il fantastico doppio
CD (edizione limitata, con corposo ed esaustivo librettone storiografico di 180
pagine, da urlo davvero) curato dalla Numero Group riguardante tutti i 45 giri (13
in tutto) della mitica ORK records di New York ed ho goduto nell’ascoltare per
la prima volta bands eccellenti e per nulla scalfite dal passaggio del tempo
come, per esempio, i Marbles ma anche brani sorprendenti ed inediti dei
primissimi Feelies, il primo 45 giri dei Television o la versione di Can’t Seem To Make You Mine dei Seeds
rivista da Alex Chilton!
Questione di scelte in ogni caso.
Considerato che sono una persona curiosa, la curiosità porta
alla conoscenza e la conoscenza spesso alla saggezza, sono sempre stato
propenso a scavare ed a cercare con metodicità ed impegno nuovi tesori ancora
sommersi ed incontaminati.
Da una cosa nasce naturalmente un’altra cosa e quindi è stato
una sorta di percorso “obbligato” quello di ricercare le origini della nostra
musica e di altre musiche per dare maggior senso a tutto, per capire il fluire
del tempo e per focalizzare il “filo” immaginario che tutto lega.
Sappiamo tutti che spesso le condizioni che hanno portato
alcuni nomi considerati fondamentali per la storia della musica come, giusto
come esempio, Robert Johnson, devono sicuramente la loro incredibile notorietà
al caso o destino, alla leggenda (ricorderete il famoso crocicchio, “crossroads”, ed il patto con il
diavolo!!) che si è creata intorno al loro nome durante l’inesorabile passare
del tempo.
Perché, com’ è noto, ai tempi delle mitiche ricerche e
primitive registrazioni di Alan Lomax direttamente sul campo, per esempio, di
bluesman ce n’erano davvero parecchi in circolazione, però la storia ha voluto
che fosse, in questo caso, Robert Johnson il nome prescelto da tale Eric
Clapton o, un altro esempio, per quanto riguarda il blues elettrico di Chicago,
quello di Muddy Waters scelto dai Rolling Stones per dare inizio alla loro rivoluzione,
direttamente dalle fondamenta, della musica rock americana tradizionalmente
intesa.
Questione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto… oltre
ovviamente all’indiscusso ed immancabile talento, molto è da attribuire ad una
sorta di fortuna voluta da chissà chi e chissà quando e chissà come… ma questo
è un altro, e ben più complesso, discorso ignoto a noi terrestri e
“sottoterrestri”.
Ed è proprio da questi presupposti che è nato il “mito” dei
nati perdenti (proprio come l’anthem garage-punk per antonomasia registrato dai
Murphy and the Mob Born Loser nel
1966!): in questo senso si potrebbe stilare un elenco così lungo che non
basterebbe un’enciclopedia.
E’ ben evidente che tutti questi personaggi (ce n’è davvero
per tutti i gusti!) degni di essere annoverati in questo infinito elenco sono
come predestinati (non è nelle loro possibilità cambiare il corso delle cose)
nello stesso modo arcano ed irrazionale per il quale altri artisti possono
raggiungere uno status da star di prima grandezza.
Sono stati spesi veri e propri fiumi di parole su questo
argomento: il più ricorrente commento è sempre stato “…e ci sarà pure un motivo se nessuno se li fila più questi dischi… evidentemente
non valgono un cazzo… è la storia che decide per noi….” e via di questo
passo…
Sappiamo bene che non tutti possono chiamarsi Mick Jagger o
Keith Richards ma oltre alla loro figura, ovviamente di indubbio spessore, è
stato possibile tutto ciò che è successo anche e grazie al merito sostanziale
di figure fondamentali come il produttore Andrew Loog Oldham, oppure i Beatles
con la figura di George Martin o ancora con Elvis Presley e l’ingombrante ma
imprescindibile figura del colonnello Tom Parker, solo per citare i più famosi.
O, che diamine, l’acuto e cinico “regista” Malcolm McLaren
con i famigerati “burattini” Sex Pistols…
Spesso si scovano dischi fatti da gente che voleva solo
trovare uno sfogo per le proprie frustrazioni e/o follie ed era praticamente ed
assolutamente ingestibile: è ovvio che a tutti piacerebbe il lato luccicante e
sicuramente effimero del successo (lusso, stravizi, sesso a volontà…) ma
l’altro lato, quello oscuro e meno decantato fatto di impegni, pressioni spesso
insostenibili, costanza ed attitudine al confronto diretto continuo e
incessante ed a tante altre, spiacevoli per i più, cose che rendono lo stardom
un territorio difficilmente percorribile ed altamente pericoloso (leggi droghe,
alcol, autodistruzione, depressione, solitudine…).
Guardandosi indietro, a volte neanche troppo, ci si accorge
immediatamente che i dischi passati inspiegabilmente inosservati e
ingiustamente nemmeno presi in considerazione sono tanti ed è difficile trovare
delle spiegazioni plausibili.
Non sto’ cercando il classico “pelo nell’uovo” beninteso ma,
credetemi, è davvero un peccato non ascoltare con attenzione certi dischi.
Ce ne sono talmente tanti che è difficile organizzare una
scelta razionale quindi mi affido ad una scelta assolutamente arbitraria e di
cuore dettata appunto dalle emozioni (le stesse che ho provato rileggendo la
storia dei Laughing Soup Dish).
Ecco dunque dieci titoli, in ordine cronologico, che il
cuore ha spontaneamente scelto tra i miei scaffali per regalargli ancora il
magico dono dell’ascolto sperando che quanto scrivo vi faccia scattare la
scintilla tesa a concedere a questo manipolo di pazzoidi una piccola porzione
del vostro prezioso tempo.
Doverosa l’aggiunta di un bonus riguardante una band davvero
speciale, Bad Liquor Pond, troppo recente per essere inclusa nei dieci dischi scelti,
che si è da poco separata definitivamente: ho reputato obbligatorio riesumarla
per pochi istanti dal definitivo oblìo che probabilmente la accompagnerà anche per
il resto dei giorni.
Benvenuti nello “strettamente confidenziale” arcobaleno di
meraviglie che la mia avida mente di eterno appassionato ha partorito
appositamente per voi:
LOS CHIJUAS - Los Chijuas
(LP Active Records)
Erano messicani, provenivano dallo stato di Chihuahua ed
hanno realizzato solo una manciata di singoli durante la seconda metà degli
anni ‘60, uno dei quali (la cover di Mighty
Quinn degli inglesi Manfred Mann) arrivò ad essere un hit locale! Poco
altro, sino a che un’attenta e spavalda etichetta greca (la Action Records)
messa in piedi da un manipolo di giovani a metà anni novanta ossessionati dai
suoni sixties più morbidi e semplici (siete avvisati!) ha deciso di ristampare
i loro singoli includendoli in uno stupendo 33 giri per cercare di renderlo
disponibile ai pochi fortunati che lo avrebbero fortuitamente incrociato nel
loro percorso di vita.
I Los Chijuas facevano garage-moody, ovvero quel tipico
garage originariamente proveniente dal New England americano che rispecchia i
grandi spazi e le numerose ed incontaminate foreste presenti in quei territori
silenziosi e magici ammantati da una malinconica patina che li rende, almeno
agli occhi di chi li ama (me compreso), così affascinanti.
Bands come i Rising Storm (quelli di Calm Before…), i Summer Sounds o compilations come Relative Distance o la serie New England Teen Scene tra le più
“note”per interderci (se volete scavare più a fondo anche la Action Rec. ha
realizzato due splendide compilations in tema, rispettivamente Times Gone By e Searching For Love).
Meravigliosa la cover di Los
Chijuas con colori che rimandano direttamente al sud America e la foto
della band, semplice ma d’impatto, in linea con le produzioni del periodo.
Per chi ama questo tipo di suoni Changing The Colors Of Life è un brano esemplare: ritmo medio,
chitarre melodiche a sorreggere i malinconici ed epici ritornelli e la classica
struttura di un brano da considerarsi perfetto!!
Il modo di costruire i brani deve molto ai Byrds ed al loro
tipico jingle-jangle chitarristico mentre per quanto riguarda le parti vocali
il riferimento più immediato possono essere gli inglesi Zombies (come esempio
si potrebbe prendere She’s Not There
loro debutto nel 1964 o Time Of A Season
nel loro più edulcorato album Odessey
& Oracle del 1968): la combinazione di queste due bands completamente
differenti può dare un’idea di come risulta essere un ipotetico modello di
garage-moody band dei medi-sessanta!
I LOS CHIJUAS erano assolutamente decentrati, essendo
messicani, ma sono riusciti ugualmente a creare una serie di canzoni (nel disco
in questione ne sono raccolte 12) tutte
nello stesso stile ed a livello delle migliori produzioni americane del
periodo.
Assolutamente da ri-scoprire!
BLUESTARS - Bluestars (Not From Birmingham)
(LP Dig The Fuzz Records)
Questa band neozelandese (di Auckland per la precisione) è
stata ovviamente influenzata dal R’n’B inglese di gente come Animals, Rolling
Stones, Yardbirds, Pretty Things, Birds (di Ron Wood) ed ha registrato una
manciata di singoli (dal 1965 al 1967) di grande impatto garage-freakbeat che
sono un MUST per chiunque voglia capire cosa voleva dire essere selvaggi
durante i sixties.
La loro Social And Product
(Settembre 1966) è uno dei brani più incredibili di tutti i sixties (scoperto
grazie a Greg Prevost ed i suoi Chesterfield Kings con una travolgente cover nello
stupendo album “Don’t Open Til Doomsday”
del 1987): purissimo mayhem di chitarra fuzz e vocals arroganti e strafottenti
ed isteriche urla nel bel mezzo del brano!
Ma non è finita quì perché anche il resto di questa
compilation è eccellente: I Can TakeIit,
Please Be A Little Kind sono anch’esse
anthem di purissimo distillato garage-freakbeat della migliore specie.
In questo disco d-e-f-i-n-i-t-i-v-o ci sono tutti i loro
singoli dell’epoca che ovviamente sono sparsi anche nelle migliori compilations
di rari singoli uscite in tutti questi anni (sto parlando di Wild Things Vol.1, Transworld Punk Vol.2, Ugly
Things Vol.3…).
Cercatelo e godete ragazzi miei… Satisfaction guaranteed!!
COLOURED BALLS - Ball Power
(LP EMI)
Erano australiani e prima di divenire quella vera e propria
macchina da guerra di nome Coloured Balls si facevano chiamare Purple Hearts
(vi consiglio di ascoltare attentamente la stupenda ristampa della Half a cow
Rec. Benzedrine Beat uscita nel 2005
che comprende tutta la loro discografia).
Già dalla cover di Ball
Power è facile intuire che l’immaginario è quello di giovani skinheads (in
Autsralia nel 1972!?) o meglio sharpie ( da questo nomignolo che avevano
adottato le gang dei sobborghi di Melbourne in quel periodo ha preso il nome
l’odierna SHARP Skin Heads Against Racial Prejudice): pensate che si sono
sciolti nel 1975 ovvero giusto un anno prima della nascita degli Sham 69 in
Inghilterra!
Le influenze di questa gang di teppisti sono molteplici (da AC/DC
a Rose Tattoo) ma di base il loro suono è PUNK, così come poco dopo, e
sottolineo poco dopo, lo iniziarono a fare anche i Sex Pistols a Londra!!
Prendiamo pure Won’t
You Make Up Your Mind e possiamo sentire chiaramente tutto ciò che ha
portato il punk: una vera rivoluzione elettrica di suoni crudi e selvaggi.
Riascoltando oggi i Coloured Balls ci si accorge immediatamente che non
hanno perso nulla in tutti questi anni: non consigliare a tutti i fans delle
chitarre pesanti (Punk, Hard Rock) questa splendida ristampa della Aztec Rec. (attenzione
alle extra-tracks da paura!) è un peccato mortale.
EXPLODING WHITE MICE - Brute Force And Ignorance
(LP Greasy Pop)
Nel 1983 ad Adelaide, sempre in terra australe, nasce una
band di sporchissimo punk rock e rock’n’roll che non ha raccolto tutto ciò che
ha seminato quindi per noi è già di per se’ oggetto di culto: si chiamavano
Exploding White Mice (hanno preso il loro nome da una scena del film Rock’n’Roll High School del 1979 dove un
laboratorio pieno di topi esplode letteralmente una volta esposto alla musica
dei Ramones).
Le loro principali influenze sono da ricercare ovviamente
nei Ramones in primis ma anche nei conterranei Radio Birdman, MC5, Stooges,
Johnny Thunder e tutte le bands americane garage dei sixties.
Già il loro primo mini-lp A Nest Of Vipers (sei brani, uscito per la Greast Pop Rec. nel
1985) è un grandissimo esempio di lercio punk and roll a cui non manca proprio
nulla.
Ma il loro primo lp Brute
Force And Ignorance del 1988 è un capolavoro che tutti dovrebbero avere e
che purtroppo non è stato per nulla celebrato come invece avrebbe dovuto essere
e si è perso nel marasma di uscite dell’epoca.
Fear (Late At Night)
è la prima bomba con cantato arrogante e strascicato e assoli di chitarra con
note prolungate: i cori sono da antologia!
Verbal Abuse, Bury Me, Hit In The Face ma anche tutti gli altri brani sono difficilmente dimenticabili
con un suono, proprio come in un’infuocata esibizione live, potente e diretto e
le chitarre che dominano su una voce pastosa e trascinante!
L’apoteosi finale è rappresentata dall’inarrivabile cover
dei DMZ di I Wanna Get Off, lenta ed
iper-elettrica con la voce che si perde nei circolari ed ipnotici riffs di
chitarra e feedback magistrale. Veri e propri maestri, gli Exploding White Mice hanno poi realizzato
altri tre album sulla falsariga del loro esordio ma, a mio avviso, non
paragonabili per resa sonora.
Si sono sciolti nell’indifferenza generale nel 1994.
Riesumarli è un dovere!
PHILISTEINS - Lifestyles Of Wretched And Forgettable
(LP Dog Meat Records)
La creatura di Guy Lucas (alla voce, chitarra ed organo) si
è formata nel 1985 ad Hobart, una cittadina in Tasmania (Australia) ai confini
del mondo, ed è riuscita attraverso il primo album Reverberations (auto finanziato ed uscito solo su cassetta
realizzata nel 1987) a gettare le basi che hanno permesso al successivo mini-lp
Bloody Convicts (1988) di varcare i
confini nazionali e giungere sino alle orecchie di qualche attento critico (in
questo caso specifico l’amico Claudio Sorge che ne aveva parlato su Rockerilla)
che aveva visto in loro, nella loro acerba e caotica, un po’ per volontà un po’
per mancanza di mezzi, ricetta di garage-rock davvero primordiale una luce
speciale.
Anche il successivo Some
Kind Of Philisteins (1989), un altro mini-lp nel quale compare un’eccellente
versione fuzzata a dovere di Thoughts Of A
Madman dei Nomads - North Carolina , 1967 - vero capolavoro del garage di
tutti i tempi!
Dopo di questo anche le cronache più attente li hanno
abbandonati al loro destino dimenticando di raccontare le meraviglie del loro
canto del cigno ovvero l’lp Lifestyles Of
Wretched And Forgettable (1991) uscito sulla eccellente Dog Meat Rec.
(dalla canzone dei Flamin’ Groovies).
In questo stupendo disco il loro suono si è fatto più
progressivo, nel senso che si è slegato dai ritmi garage filo sixties, per
raggiungere una desolata terra di uguale intensità elettrica, oltremodo primitiva
e selvaggia ma molto più personale (l’album della maturità?): brani come la
stonata e sbilenca cover dei Pretty Things psychedelici Can’t Stand The Pain (contenuta in Get The Picture? del 1965) sono memorabili, lo stesso dicasi per Point Of No Return originale ballata
punk-psychedelica grezza e melodica com’era nel loro unico stile.
Nel 1992 si sono sciolti nell’indifferenza generale: da
segnalare che Guy Lucas,
il frontman dei Philisteins, è morto a causa di un’overdose
di eroina nel marzo del 1998 e due membri della band hanno continuato a fare
ottima musica con gli Hands Of Time con i quali hanno realizzato uno splendido
disco di puro e scalcinato garage-rock (I’m
a Hideous Monster uscito nel 2002 con 11 brani compressi in 28 min. e 43
sec. dai quali svetta una splendida ed iper-punk cover dell’immortale In The Past dei Chocolate Watch Band!).
MOTHER TONGUE - Mother Tongue
(CD 550 Music)
Basta sentire un brano, Broken,
l’opener del loro disco omonimo, per inserire in un posto speciale nella musica
rock di ogni tempo questa band di Austin (Texas) che lo ha realizzato in un
epoca in cui tutti i talents-scout delle case discografiche maggiori erano
indaffarati nell’impossibile scopo di cercare i nuovi Nirvana.
Si parla di acido blues-rock dalle forti tinte psychedeliche
tipico del Texas, terra in cui sono nati e cresciuti gruppi come i mitici
Moving Sidewalk (i pre ZZ Top), i 13Th Floor Elevator, Josefus e decine di
altre garage band meno note (che potete trovare nelle numerose ristampe della
Cicadelic Rec. realizzate sin dagli anni ottanta).
Provate a vedere su Youtube i filmati disponibili di Broken per rendervi conto di cosa erano
capaci dal vivo questi ragazzi degeneri.
Mad World è una
stupenda ballata desertica che ricorda l’incedere a scatti di certi brani dei Seeds
di Sky Saxon (Pushin’ Too Hard su
tutti) ma con forti sapori del torrido blues del primo Johnny Winter (altro
texano doc con il primo disco su Sonobeat Rec. Progressive Blues Experiment, 1968).
Burn Baby e The Seed sono altri due magistrali
esempi di come il rock può ancora essere vivo e a suo modo originale: semplici
e diretti si sviluppano sulle rasoiate di chitarra sempre molto secca e
rocciosa, padrona del suono, sulla quale poi si muovono le dinamiche ritmiche e
la voce roca ma potente.
In piena tradizione texana, degni eredi dell’illustre
passato di questo essenziale territorio americano tra i più influenti nella
storia del rock.
Il loro contratto con la Epic Rec. è stato possibile grazie
all’interessamento di Ian Astbury (leader dei Cult), da sempre genuino
appassionato di rock: la band ha girato in lungo ed in largo gli States in
compagnia di nomi importanti come Red Hot Chilli Peppers, Pavement, Smashing
Pumpkins ma il disco ha venduto purtroppo davvero poco.
Trascurabili i loro dischi successivi, banali esercizi di
una band che aveva già detto tutto nel magico ed irripetibile debutto.
Come diceva spesso il loro chitarrista, vero punto di forza
della band ma purtroppo, in quel periodo, ossessionato da una forte dipendenza
dall’eroina, Christian Leibfried: “Fuck yeah, this is gonna rock!!”
PUSHERMAN - Floored
(CD Ignition)
Nel panorama inglese dell’epoca non esisteva niente del
genere perchè erano tutti concentrati sul brit-pop et similia, sulla scia delle
due bands che tenevano letteralmente occupati tutti: Blur ed Oasis ovvero le
galline dalle uova d’oro!
La fortuna, se così si può dire, per i Pusherman è stata
quella di essere presi sotto l’ala “protettrice” di una major come la Sony Rec.
(grazie all’interessamento dell’allora manager degli Oasis, Marcus Russell
della Ignition Rec.) e di aver avuto la possibilità, durata com’era logico
aspettarsi, il tempo di un album, di registrare questo Floored.
L’estasi inizia con Chase
It torrenziale brano come sospeso
tra degli Oasis molto più heavy e slowly ed i Verve di inizio carriera.
Sold è un
solidissimo e drogato R’n’B moderno con un muro di chitarre e la voce di Andy
Frank che ricorda nuovamente quella di Liam Gallagher anche se completamente
sfocata.
So Long Low più
notturna e psychedelica in senso Spiritualized attenua il clima di torrida
elettricità ma solo per poco perché con First
Time si ritorna ad un deciso e moderno blues-rock con tanto di slide, voce
filtrata e drogata e coriandoli elettrici di chitarra.
Whole ci
ammutolisce con un ipnotico e tribale groove di chitarra, un po’ come se gli
Stooges volessero cimentarsi con il caldissimo funk dei primi anni settanta, e
la voce sgraziata ci riportasse nel nostro tempo con nove claustrofobici minuti
di estenuante feedback elettrico.
Never Coming Down
epica e memorabile con una melodia tra lo spaghetti-western di Ennio Morricone
e il Neil Young più dilatato e psychedelico sommersi in un oceano di rumore
bianco.
Non c’è una traccia da saltare sino al fatale punto di non
ritorno della suite finale Floored
(uncidi incredibili minuti), decadente e moderno mantra psychedelico tra
progressioni kraute, drogate dilatazioni dub e deliri di chitarra tra cascate
di fuzz e feedback e la voce lontana e persa di Andy Frank ormai
irrecuperabile.
Andy Frank si è poi trasferito ad L.A. ed è inevitabilmente
morto a causa di un’overdose di eroina nel 2008, all’età di 42 anni…
ACID BATH - Paegan Terrorism Tactics
(LP/CD Rotten Records)
La provenienza è molto importante in questo specifico caso:
lo stato è la Louisiana!
Solo dalle malsane paludi di quello stato possono esalare
suoni così malati e per certi versi lugubri: dagli esperimenti
voodoo-blues-psychedelici di Dr.John (quello di Gris Gris, 1968) alle estreme derive sludge-core deli Eye Hate God scorre
lo stesso sangue…
Dax Riggs, il frontman e vocalist di questa degenerata
congrega di devastatori del r’n’r, è sfigato per natura nonostante
l’indiscutibile talento dimostrato negli anni.
Dotato di una voce profonda e nasale, che può ricordare
quella di Jim Morrison, soprattutto nelle decadenti ballate gotiche di New Death Sensation e la lunga ed innodica Death Girl (quello che Dax considera il suo pezzo country?!), è in
grado di spaziare fra registri dei più vari sino a lambire territori stoner /
doom della specie più pregiata come nelle immonde Bleed Me An Ocean e Locust Spawning.
L’elettricità delle chitarre è devastante ed ipnotica e si
plasma con le ritmiche solide e tribali della batteria creando una spirale
inarrivabile di moderna brutalità (Diab Soule
massimo esempio di incontenibile furia tra Black Sabbath, Doors e pura follia!).
Esaltanti le progressioni della furiosa Paegan Love Song con le chitarre super stoner ed i cadenzati ritmi
mosh con la voce melodica/isterica di Dax assolutamente irresistibile come
anche la crepuscolare ballata Graveflower
che alterna momenti bucolici a ciclopici riffs proto-doom di astrale potenza.
Poche bands sono state così complete eccellendo nella
continua ed originale alternanza di fasi melodiche a potentissimi gorghi
elettrici di super-sludge mammoth riffs che duellano con la voce del posseduto
Dax sull’orlo del baratro!
Questo disco è assolutamente incredibile ed è nettamente più
riuscito se paragonato al primo album degli Acid Bath When The Kite String Pops (1994) o all’unico album della successiva
band di Dax, ovvero l’omonimo Agents Of
Oblivion (2000) niente più che discreti esempi di stoner-rock che si
disperdono tra le altre uscite.
Altra cosa i successivi Deadboy & The Elephantmen, molto
più blues e tradizionali ma assolutamente degni di nota con il loro unico ed
ancora freschissimo We Are The Night Sky
(su Fat Possum Rec., 2005) ovviamente snobbato da tutti.
Speriamo che in futuro il nostro caro Dax Riggs ci riesca a
sorprendere nuovamente con qualcosa di eccitante: stay tuned!
STARLITE DESPERATION - Go Kill Mice
(LP/CD Sweet Nothing)
A parte l’avere scelto uno dei nomi più belli di sempre
questa band californiana era in se’ una riuscita miscela di grandi influenze
che, in maniera aperta e forse non troppo ricercata, andavano dai Gun Club, ai
primi X (di John Doe ed Exene Cervenka) e dai Birthday Party (di Nick Cave)
sino ai classici mostri sacri degli anni d’oro (tra rock, tradizione e
psychedelia).
Quando hanno registrato il disco in questione risiedevano a
Detroit (sono poi ritornati a Los Angeles nel 2002) e sono riusciti nel
difficile compito di realizzare nove brani scarni e dirompenti, come la conclusiva a perdifiato Go Kill Mice, che si fanno sempre
ricordare per diversi motivi: il suono è essenziale ma pieno e deragliante (sentite
in tal senso lo splendido giro di basso della frenetica ed anthemica Notes From The Drag come i cori della
cadenzata danza tribale di Do You Wanna
Be There).
Il cantante Dante Adrian White ha una voce nitida e calda
che si innesta alla perfezione con la scarna ossatura di un rock dalle forti
reminiscenze west-coast di metà anni settanta (quando il punk stava nascendo in
tutta la sua incontaminata furia iconoclasta).
Una band fuori dal tempo e da qualsiasi trend che dopo
questo esordio ha realizzato altri due trascurabili dischi (Don’t Do Time, 2006 e Take It Personally, 2008), colpi di coda
finali prima dell’inevitabile dissolvimento.
FLAKES - Back To School
(LP/CD Dollar Records)
Il manifesto del desiderio di rimanere per l’eternità adolescenti
o l’incapacità di diventare adulti vedete un po’ voi.
L’essenza del R’n’R, quindi del Punk…
Se vi è capitato di incontrare Russell Quan (ha suonato con
Mummies, Phantom Surfers, Bobbyteens…) allora avete già capito di chi sto’
parlando: di giorno svolge la sua attività di meccanico in un officina di San
Francisco e di sera si trasforma in un instancabile agitatore culturale sempre
in prima fila ai migliori concerti di tutti i clubs della città (Purple Onion
in primis).
La miscela di questo incredibile disco è fatta di
entusiasmo, passione, competenza ed adrenalina al 100%!!
Ricordo un loro concerto pazzesco a Benidorm (Spagna)
durante uno dei mitici Wild Weekend organizzati da Josh e Babs Collins che si
svolgeva in un claustrofobico scantinato, a metà pomeriggio (?!?), con una
temperatura, ben oltre una normale sauna, prossima al puro dissolvimento e
Russell Quan alla batteria dei suoi Flakes non si è fermato un solo istante
collegando i vari brani in un continuo flusso di vibrazioni positive indotte:
la chimica del R’n’R!
La competenza ha portato Russell ed i suoi accoliti a scegliere
brani da coverizzare come Open Up Your Door
(pezzo fantastico di Richard & The Young Lions del 1966) o lo stravagante
medley di Shake / Hold On
(rispettivamente di Shadows Of Knight / Sam & Dave) senza soluzione di
continuità in un cocktail personalissimo ed esplosivo.
Insomma tutto funziona a meraviglia nei quattordici brani di Back To School, tra i migliori Real
Kids, i Flamin’ Groovies, gli indimenticabili DMZ e, perchè no, gli
onnipresenti Ramones…
BAD LIQUOR POND - Blue Smoke Orange Sky
(LP MT6 Records)
Sono venuto a conoscenza di questa band di Baltimora nel
Maryland per puro caso durante una delle mie rare incursioni nel mondo di
bandcamp.
Che sorpresa è stata il primo ascolto del loro primo disco Year Of The Clam (2007):
atmosfere dilatate, suoni grezzi ma delicati magicamente
cullati in un magma “indie-pop” con frequenti passaggi in territori orientali
(utilizzo di strumenti come bouzuki, sitar, tar…).
Ovviamente il passo successivo è stato quello di passare
all’ascolto del secondo disco Radiant Transmission
(2008) splendido e più asciutto del precedente.
Il terzo ed ultimo disco Blue
Smoke Orange Sky (2012) è, se possibile, ancora meglio dei due precedenti (la
scelta tra i tre dischi è stata ardua).
Quello che colpisce maggiormente dei Bad Liquor Pond è la
capacità di scrivere belle canzoni, semplicemente.
La maggior parte di bands attuali, almeno in questo genere,
si preoccupa di avere dei suoni e delle atmosfere molto cool per mascherare
l’incapacità di scrivere brani da ricordare.
Ogni brano del disco in questione invece è dotato di una
struttura molto solida, nonostante la semplicità, ed è sempre pervaso da
melodie dal forte sapore tardo sixties (spesso molto stonate) catapultate magistralmente
in un contesto moderno (leggi andatura ipnotica accostabile a cose definite
shoegaze con influenze kraute e tipico motorik ritmico costante ma non
freddamente metronomico) con suoni sempre molto vintage ma mai troppo puliti.
Come dire, senza essere particolarmente originali, suonano
diversi da tutto ciò che ci circonda con una capacità di tenere l’attenzione
vigile in qualsiasi momento.
Al centro di tutto c’è sempre la canzone, anche se più lunga
della classica canzone “indie-pop” comunemente intesa, con ritornelli dalla
forte presa e memorizzazione.
Potrei azzardare dei nomi indicando gli Spacemen Three per
le atmosfere ed i ritmi sempre placidi e fortemente oppiacei con però un piglio
pop più melodico e voce calda e modulata e chitarra elettroacustica con cadenze
in linea con certo garage-psychedelico dei medi sessanta (Chocolate Watchband
in primis) ed i suoni molto riverberati e sfasati.
Purtroppo si sono sciolti nel 2014 quindi, prima di
salutarli per sempre, mi sembrava giusto cercare di far conoscere il loro non
comune talento.
Fabio Reverberend Avaro