Perché siamo degli appassionati terminali di musica e lettura, prima di tutto.

Di tutto ciò che è LIBERA espressione. In un’epoca come questa dove ogni cosa è a disposizione, libera appunto, ma senza alcun tipo di controllo o di filtro, quindi difficilmente raggiungibile senza una guida, senza una direzione.

Perché è da quando abbiamo preso possesso della ragione che non smettiamo di essere curiosi, di cercare cose nuove, meno note. Non ci fermiamo MAI, davanti a niente e nessuno.

Quindi, dopo aver letto l’ennesima testimonianza di prima mano da parte di gente che non sapeva nemmeno dove stava di casa (il riferimento è Journey To The Center Of The Cramps, ovvero la biografia dei mitici Cramps di Dick Porter recentemente tradotta in Italia dai ragazzi di Goodfellas) ma era sicura di quello che faceva, ovvero riportare a galla il suono più malato degli anni ’50, quello delle B-sides di rari ed innominabili 45 giri di rockabilly; e centrifugarlo con gli horror comics e il clima urbano e degradato della New York di metà anni settanta. Erano talmente convinti che, alla fine, hanno avuto ragione loro. In barba a tutti!

E così siamo anche noi. Non ci interessa minimamente, per il momento, avere un obiettivo preciso o, meglio, un punto di arrivo. Ci godiamo il viaggio. Vogliamo condividere i nostri soliti ed insoliti ascolti e letture (tutti, per noi, ineludibilmente da CINQUE STELLE e quasi irrimediabilmente PERDUTI) con quanta più gente possibile. Nel mare magnum indistinto della rete globale occorre più che mai una guida all’ascolto ed alla lettura. Occorrono punti fermi.

Proveremo ad essere un filtro, un catalizzatore magari; con i nostri punti di vista e la nostra attitudine proveremo a fare grandi passi, ad assicurarci le cose migliori che ci sono sul nostro pianeta (per gli altri, vedremo) anche in quest’epoca confusa e infelice.

Non è cosa da poco, lo sappiamo.

Se funzionerà saranno i lettori a dirlo, che sono liberi di criticare o suggerire quello che vogliono.

Allacciate le cinture, si parte.

GLI STELLARI

mercoledì 7 settembre 2016

STRICTLY CONFIDENTIAL
Mindblowing Sounds From The Dark Places


Impossibile avere la pretesa di poter ascoltare il meglio di ciò che succede nel mondo musicale oggi! Nel mare magnum di incontrollato/incontrollabile flusso di uscite segnalate e riscontrabili in veri e propri mostri come Spotify e Bandcamp, oggi spazi/motori assolutamente essenziali per avere un occhio vigile su ciò che succede “sottoterra”, non ci si può concedere nessuna distrazione… Less is more… Ricordo, senza nostalgia beninteso, che negli anni della mia adolescenza (quindi i famigerati anni ’80) le notizie su ciò che succedeva nel campo musicale si potevano avere su riviste indipendenti ma ufficiali come Rockerilla (l’unica che trattava la musica una volta veramente alternativa al mainstream) oppure, per quanto riguardava il PUNK, su innumerevoli fanzine (ne facevamo anche noi due chiamate BLAST OFF! ed un mio caro amico si occupava di DECONTROL) che recuperavo al Virus durante i frequenti concerti a quei tempi completamente autogestiti ed organizzati e da Virus Diffusioni in via Orti a Milano che però avevano uscite, dati i mezzi scarsissimi, obbligatoriamente a dir poco irregolari e quindi erano sempre inevitabilmente in ritardo rispetto a ciò che succedeva nella realtà.
C’era proprio un diverso rapporto con il tempo, non era ne’ meglio ne’ peggio di ora, semplicemente diverso.
Si andava in un noto negozio di importazione vicino Varese (dove tutt’ora abito) ancora oggi in piena forma e ci si ritrovava a vedere i 45 giri appesi alle pareti e così si veniva a conoscenza delle nuove uscite inglesi ed americane: sembra di parlare del periodo paleolitico invece sono passati “solo” 30 anni! Pazzesco…
Oggi anche il ruolo della critica (riviste, blog, forum e siti vari…….) è cambiato completamente dovendo per forza di cose scegliere/filtrare in un oceano di illimitate possibilità.
L’acquisto di un disco è rimasto sempre un gesto speciale anche dopo tutti questi anni: la scelta, oggi possibile anche dopo aver assaporato qualche nota che permette di evitare in senso assoluto cattive sorprese, è comunque difficile di fronte a tale maestosa quantità.
Poi c’è anche il mercato ed il marketing ad esso correlato che immettono regolarmente in circolo prodotti e riedizioni, cofanetti relativi ai conclamati capolavori unanimemente riconosciuti in forme nuove o perlomeno atti a scavare ed a dare un senso compiuto a questi dischi indispensabili.
Prendiamo ad esempio, per parlare di dischi storicamente rilevanti, della bootleg series di Bob Dylan: The Cutting Edge: 1965/1966 The Bootleg Series vol.12 (6 CD).
Si parla, come noto, delle leggendarie sessions che hanno partorito la trilogia incredibile di Bring It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde.
Si analizza il work in progress, come l’elettricità presente in questi magici solchi abbia riscritto la storia della musica tradizionale americana, come la fatica e l’imperfezione (ricordo che in un cd del box ci sono 20 versioni, dicesi venti, di Like A Rolling Stone!?!) abbiano portato alla, quella sì, perfezione formale dei dischi ufficiali pocanzi citati.
Non posseggo questo box, nonostante riconosca l’assoluta eccellenza degli originali che ho letteralmente consumato nel corso degli anni, perché non mi interessa affatto analizzare e decostruire nulla.
Ho fatto l’esempio di Bob Dylan perché oggi è sulla bocca di tutti ma potevo fare lo stesso con qualcosa di più vicino a noi “sotterrati” come le sessions complete di Raw Power degli Stooges: stesso discorso per quanto mi riguarda; non mi interessa ascoltare ripetutamente l’evoluzione di nulla.
Personalmente è un discorso più di pancia e di cuore che non di testa.
Giusto per dire che invece ho comprato il fantastico doppio CD (edizione limitata, con corposo ed esaustivo librettone storiografico di 180 pagine, da urlo davvero) curato dalla Numero Group riguardante tutti i 45 giri (13 in tutto) della mitica ORK records di New York ed ho goduto nell’ascoltare per la prima volta bands eccellenti e per nulla scalfite dal passaggio del tempo come, per esempio, i Marbles ma anche brani sorprendenti ed inediti dei primissimi Feelies, il primo 45 giri dei Television o la versione di Can’t Seem To Make You Mine dei Seeds rivista da Alex Chilton!
Questione di scelte in ogni caso.
Considerato che sono una persona curiosa, la curiosità porta alla conoscenza e la conoscenza spesso alla saggezza, sono sempre stato propenso a scavare ed a cercare con metodicità ed impegno nuovi tesori ancora sommersi ed incontaminati.
Da una cosa nasce naturalmente un’altra cosa e quindi è stato una sorta di percorso “obbligato” quello di ricercare le origini della nostra musica e di altre musiche per dare maggior senso a tutto, per capire il fluire del tempo e per focalizzare il “filo” immaginario che tutto lega.
Sappiamo tutti che spesso le condizioni che hanno portato alcuni nomi considerati fondamentali per la storia della musica come, giusto come esempio, Robert Johnson, devono sicuramente la loro incredibile notorietà al caso o destino, alla leggenda (ricorderete il famoso crocicchio, “crossroads”, ed il patto con il diavolo!!) che si è creata intorno al loro nome durante l’inesorabile passare del tempo.
Perché, com’ è noto, ai tempi delle mitiche ricerche e primitive registrazioni di Alan Lomax direttamente sul campo, per esempio, di bluesman ce n’erano davvero parecchi in circolazione, però la storia ha voluto che fosse, in questo caso, Robert Johnson il nome prescelto da tale Eric Clapton o, un altro esempio, per quanto riguarda il blues elettrico di Chicago, quello di Muddy Waters scelto dai Rolling Stones per dare inizio alla loro rivoluzione, direttamente dalle fondamenta, della musica rock americana tradizionalmente intesa.
Questione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto… oltre ovviamente all’indiscusso ed immancabile talento, molto è da attribuire ad una sorta di fortuna voluta da chissà chi e chissà quando e chissà come… ma questo è un altro, e ben più complesso, discorso ignoto a noi terrestri e “sottoterrestri”.
Ed è proprio da questi presupposti che è nato il “mito” dei nati perdenti (proprio come l’anthem garage-punk per antonomasia registrato dai Murphy and the Mob Born Loser nel 1966!): in questo senso si potrebbe stilare un elenco così lungo che non basterebbe un’enciclopedia.
E’ ben evidente che tutti questi personaggi (ce n’è davvero per tutti i gusti!) degni di essere annoverati in questo infinito elenco sono come predestinati (non è nelle loro possibilità cambiare il corso delle cose) nello stesso modo arcano ed irrazionale per il quale altri artisti possono raggiungere uno status da star di prima grandezza.
Sono stati spesi veri e propri fiumi di parole su questo argomento: il più ricorrente commento è sempre stato “…e ci sarà pure un motivo se nessuno se li fila più questi dischi… evidentemente non valgono un cazzo… è la storia che decide per noi….” e via di questo passo…
Sappiamo bene che non tutti possono chiamarsi Mick Jagger o Keith Richards ma oltre alla loro figura, ovviamente di indubbio spessore, è stato possibile tutto ciò che è successo anche e grazie al merito sostanziale di figure fondamentali come il produttore Andrew Loog Oldham, oppure i Beatles con la figura di George Martin o ancora con Elvis Presley e l’ingombrante ma imprescindibile figura del colonnello Tom Parker, solo per citare i più famosi.
O, che diamine, l’acuto e cinico “regista” Malcolm McLaren con i famigerati “burattini” Sex Pistols…
Spesso si scovano dischi fatti da gente che voleva solo trovare uno sfogo per le proprie frustrazioni e/o follie ed era praticamente ed assolutamente ingestibile: è ovvio che a tutti piacerebbe il lato luccicante e sicuramente effimero del successo (lusso, stravizi, sesso a volontà…) ma l’altro lato, quello oscuro e meno decantato fatto di impegni, pressioni spesso insostenibili, costanza ed attitudine al confronto diretto continuo e incessante ed a tante altre, spiacevoli per i più, cose che rendono lo stardom un territorio difficilmente percorribile ed altamente pericoloso (leggi droghe, alcol, autodistruzione, depressione, solitudine…).

Guardandosi indietro, a volte neanche troppo, ci si accorge immediatamente che i dischi passati inspiegabilmente inosservati e ingiustamente nemmeno presi in considerazione sono tanti ed è difficile trovare delle spiegazioni plausibili.
Non sto’ cercando il classico “pelo nell’uovo” beninteso ma, credetemi, è davvero un peccato non ascoltare con attenzione certi dischi.
Ce ne sono talmente tanti che è difficile organizzare una scelta razionale quindi mi affido ad una scelta assolutamente arbitraria e di cuore dettata appunto dalle emozioni (le stesse che ho provato rileggendo la storia dei Laughing Soup Dish).
Ecco dunque dieci titoli, in ordine cronologico, che il cuore ha spontaneamente scelto tra i miei scaffali per regalargli ancora il magico dono dell’ascolto sperando che quanto scrivo vi faccia scattare la scintilla tesa a concedere a questo manipolo di pazzoidi una piccola porzione del vostro prezioso tempo.
Doverosa l’aggiunta di un bonus riguardante una band davvero speciale, Bad Liquor Pond, troppo recente per essere inclusa nei dieci dischi scelti, che si è da poco separata definitivamente: ho reputato obbligatorio riesumarla per pochi istanti dal definitivo oblìo che probabilmente la accompagnerà anche per il resto dei giorni.
Benvenuti nello “strettamente confidenziale” arcobaleno di meraviglie che la mia avida mente di eterno appassionato ha partorito appositamente per voi:

LOS CHIJUAS - Los Chijuas
(LP Active Records)


Erano messicani, provenivano dallo stato di Chihuahua ed hanno realizzato solo una manciata di singoli durante la seconda metà degli anni ‘60, uno dei quali (la cover di Mighty Quinn degli inglesi Manfred Mann) arrivò ad essere un hit locale! Poco altro, sino a che un’attenta e spavalda etichetta greca (la Action Records) messa in piedi da un manipolo di giovani a metà anni novanta ossessionati dai suoni sixties più morbidi e semplici (siete avvisati!) ha deciso di ristampare i loro singoli includendoli in uno stupendo 33 giri per cercare di renderlo disponibile ai pochi fortunati che lo avrebbero fortuitamente incrociato nel loro percorso di vita.
I Los Chijuas facevano garage-moody, ovvero quel tipico garage originariamente proveniente dal New England americano che rispecchia i grandi spazi e le numerose ed incontaminate foreste presenti in quei territori silenziosi e magici ammantati da una malinconica patina che li rende, almeno agli occhi di chi li ama (me compreso), così affascinanti.
Bands come i Rising Storm (quelli di Calm Before…), i Summer Sounds o compilations come Relative Distance o la serie New England Teen Scene tra le più “note”per interderci (se volete scavare più a fondo anche la Action Rec. ha realizzato due splendide compilations in tema, rispettivamente Times Gone By e Searching For Love).
Meravigliosa la cover di Los Chijuas con colori che rimandano direttamente al sud America e la foto della band, semplice ma d’impatto, in linea con le produzioni del periodo.
Per chi ama questo tipo di suoni Changing The Colors Of Life è un brano esemplare: ritmo medio, chitarre melodiche a sorreggere i malinconici ed epici ritornelli e la classica struttura di un brano da considerarsi perfetto!!
Il modo di costruire i brani deve molto ai Byrds ed al loro tipico jingle-jangle chitarristico mentre per quanto riguarda le parti vocali il riferimento più immediato possono essere gli inglesi Zombies (come esempio si potrebbe prendere She’s Not There loro debutto nel 1964 o Time Of A Season nel loro più edulcorato album Odessey & Oracle del 1968): la combinazione di queste due bands completamente differenti può dare un’idea di come risulta essere un ipotetico modello di garage-moody band dei medi-sessanta!
I LOS CHIJUAS erano assolutamente decentrati, essendo messicani, ma sono riusciti ugualmente a creare una serie di canzoni (nel disco in questione ne sono raccolte 12)  tutte nello stesso stile ed a livello delle migliori produzioni americane del periodo.
Assolutamente da ri-scoprire!



BLUESTARS - Bluestars (Not From Birmingham)
(LP Dig The Fuzz Records)


Questa band neozelandese (di Auckland per la precisione) è stata ovviamente influenzata dal R’n’B inglese di gente come Animals, Rolling Stones, Yardbirds, Pretty Things, Birds (di Ron Wood) ed ha registrato una manciata di singoli (dal 1965 al 1967) di grande impatto garage-freakbeat che sono un MUST per chiunque voglia capire cosa voleva dire essere selvaggi durante i sixties.
La loro Social And Product (Settembre 1966) è uno dei brani più incredibili di tutti i sixties (scoperto grazie a Greg Prevost ed i suoi Chesterfield Kings con una travolgente cover nello stupendo album “Don’t Open Til Doomsday” del 1987): purissimo mayhem di chitarra fuzz e vocals arroganti e strafottenti ed isteriche urla nel bel mezzo del brano!
Ma non è finita quì perché anche il resto di questa compilation è eccellente: I Can TakeIit, Please Be A Little Kind sono anch’esse anthem di purissimo distillato garage-freakbeat della migliore specie.
In questo disco d-e-f-i-n-i-t-i-v-o ci sono tutti i loro singoli dell’epoca che ovviamente sono sparsi anche nelle migliori compilations di rari singoli uscite in tutti questi anni (sto parlando di Wild Things Vol.1, Transworld Punk Vol.2, Ugly Things Vol.3…).
Cercatelo e godete ragazzi miei… Satisfaction guaranteed!!


COLOURED BALLS - Ball Power
(LP EMI)


Erano australiani e prima di divenire quella vera e propria macchina da guerra di nome Coloured Balls si facevano chiamare Purple Hearts (vi consiglio di ascoltare attentamente la stupenda ristampa della Half a cow Rec. Benzedrine Beat uscita nel 2005 che comprende tutta la loro discografia).
Già dalla cover di Ball Power è facile intuire che l’immaginario è quello di giovani skinheads (in Autsralia nel 1972!?) o meglio sharpie ( da questo nomignolo che avevano adottato le gang dei sobborghi di Melbourne in quel periodo ha preso il nome l’odierna SHARP Skin Heads Against Racial Prejudice): pensate che si sono sciolti nel 1975 ovvero giusto un anno prima della nascita degli Sham 69 in Inghilterra!
Le influenze di questa gang di teppisti sono molteplici (da AC/DC a Rose Tattoo) ma di base il loro suono è PUNK, così come poco dopo, e sottolineo poco dopo, lo iniziarono a fare anche i Sex Pistols a Londra!!
Prendiamo pure Won’t You Make Up Your Mind e possiamo sentire chiaramente tutto ciò che ha portato il punk: una vera rivoluzione elettrica di suoni crudi e selvaggi.
Riascoltando oggi i Coloured Balls ci si accorge immediatamente che non hanno perso nulla in tutti questi anni: non consigliare a tutti i fans delle chitarre pesanti (Punk, Hard Rock) questa splendida ristampa della Aztec Rec. (attenzione alle extra-tracks da paura!) è un peccato mortale.



EXPLODING WHITE MICE - Brute Force And Ignorance
(LP Greasy Pop)


Nel 1983 ad Adelaide, sempre in terra australe, nasce una band di sporchissimo punk rock e rock’n’roll che non ha raccolto tutto ciò che ha seminato quindi per noi è già di per se’ oggetto di culto: si chiamavano Exploding White Mice (hanno preso il loro nome da una scena del film Rock’n’Roll High School del 1979 dove un laboratorio pieno di topi esplode letteralmente una volta esposto alla musica dei Ramones).
Le loro principali influenze sono da ricercare ovviamente nei Ramones in primis ma anche nei conterranei Radio Birdman, MC5, Stooges, Johnny Thunder e tutte le bands americane garage dei sixties.
Già il loro primo mini-lp A Nest Of Vipers (sei brani, uscito per la Greast Pop Rec. nel 1985) è un grandissimo esempio di lercio punk and roll a cui non manca proprio nulla.
Ma il loro primo lp Brute Force And Ignorance del 1988 è un capolavoro che tutti dovrebbero avere e che purtroppo non è stato per nulla celebrato come invece avrebbe dovuto essere e si è perso nel marasma di uscite dell’epoca.
Fear (Late At Night) è la prima bomba con cantato arrogante e strascicato e assoli di chitarra con note prolungate: i cori sono da antologia!
Verbal Abuse, Bury Me, Hit In The Face ma anche tutti gli altri brani sono difficilmente dimenticabili con un suono, proprio come in un’infuocata esibizione live, potente e diretto e le chitarre che dominano su una voce pastosa e trascinante!
L’apoteosi finale è rappresentata dall’inarrivabile cover dei DMZ di I Wanna Get Off, lenta ed iper-elettrica con la voce che si perde nei circolari ed ipnotici riffs di chitarra e feedback magistrale. Veri e propri maestri,  gli Exploding White Mice hanno poi realizzato altri tre album sulla falsariga del loro esordio ma, a mio avviso, non paragonabili per resa sonora.
Si sono sciolti nell’indifferenza generale nel 1994.
Riesumarli è un dovere!



PHILISTEINS - Lifestyles Of Wretched And Forgettable
(LP Dog Meat Records)


La creatura di Guy Lucas (alla voce, chitarra ed organo) si è formata nel 1985 ad Hobart, una cittadina in Tasmania (Australia) ai confini del mondo, ed è riuscita attraverso il primo album Reverberations (auto finanziato ed uscito solo su cassetta realizzata nel 1987) a gettare le basi che hanno permesso al successivo mini-lp Bloody Convicts (1988) di varcare i confini nazionali e giungere sino alle orecchie di qualche attento critico (in questo caso specifico l’amico Claudio Sorge che ne aveva parlato su Rockerilla) che aveva visto in loro, nella loro acerba e caotica, un po’ per volontà un po’ per mancanza di mezzi, ricetta di garage-rock davvero primordiale una luce speciale.
Anche il successivo Some Kind Of Philisteins (1989), un altro mini-lp nel quale compare un’eccellente versione fuzzata a dovere di Thoughts Of A Madman dei Nomads - North Carolina , 1967 - vero capolavoro del garage di tutti i tempi!
Dopo di questo anche le cronache più attente li hanno abbandonati al loro destino dimenticando di raccontare le meraviglie del loro canto del cigno ovvero l’lp Lifestyles Of Wretched And Forgettable (1991) uscito sulla eccellente Dog Meat Rec. (dalla canzone dei Flamin’ Groovies).
In questo stupendo disco il loro suono si è fatto più progressivo, nel senso che si è slegato dai ritmi garage filo sixties, per raggiungere una desolata terra di uguale intensità elettrica, oltremodo primitiva e selvaggia ma molto più personale (l’album della maturità?): brani come la stonata e sbilenca cover dei Pretty Things psychedelici Can’t Stand The Pain (contenuta in Get The Picture? del 1965) sono memorabili, lo stesso dicasi per Point Of No Return originale ballata punk-psychedelica grezza e melodica com’era nel loro unico stile.
Nel 1992 si sono sciolti nell’indifferenza generale: da segnalare che Guy Lucas,
il frontman dei Philisteins, è morto a causa di un’overdose di eroina nel marzo del 1998 e due membri della band hanno continuato a fare ottima musica con gli Hands Of Time con i quali hanno realizzato uno splendido disco di puro e scalcinato garage-rock (I’m a Hideous Monster uscito nel 2002 con 11 brani compressi in 28 min. e 43 sec. dai quali svetta una splendida ed iper-punk cover dell’immortale In The Past dei Chocolate Watch Band!).



MOTHER TONGUE - Mother Tongue
(CD 550 Music)


Basta sentire un brano, Broken, l’opener del loro disco omonimo, per inserire in un posto speciale nella musica rock di ogni tempo questa band di Austin (Texas) che lo ha realizzato in un epoca in cui tutti i talents-scout delle case discografiche maggiori erano indaffarati nell’impossibile scopo di cercare i nuovi Nirvana.
Si parla di acido blues-rock dalle forti tinte psychedeliche tipico del Texas, terra in cui sono nati e cresciuti gruppi come i mitici Moving Sidewalk (i pre ZZ Top), i 13Th Floor Elevator, Josefus e decine di altre garage band meno note (che potete trovare nelle numerose ristampe della Cicadelic Rec. realizzate sin dagli anni ottanta).
Provate a vedere su Youtube i filmati disponibili di Broken per rendervi conto di cosa erano capaci dal vivo questi ragazzi degeneri.
Mad World è una stupenda ballata desertica che ricorda l’incedere a scatti di certi brani dei Seeds di Sky Saxon (Pushin’ Too Hard su tutti) ma con forti sapori del torrido blues del primo Johnny Winter (altro texano doc con il primo disco su Sonobeat Rec. Progressive Blues Experiment, 1968).
Burn Baby e The Seed sono altri due magistrali esempi di come il rock può ancora essere vivo e a suo modo originale: semplici e diretti si sviluppano sulle rasoiate di chitarra sempre molto secca e rocciosa, padrona del suono, sulla quale poi si muovono le dinamiche ritmiche e la voce roca ma potente.
In piena tradizione texana, degni eredi dell’illustre passato di questo essenziale territorio americano tra i più influenti nella storia del rock.
Il loro contratto con la Epic Rec. è stato possibile grazie all’interessamento di Ian Astbury (leader dei Cult), da sempre genuino appassionato di rock: la band ha girato in lungo ed in largo gli States in compagnia di nomi importanti come Red Hot Chilli Peppers, Pavement, Smashing Pumpkins ma il disco ha venduto purtroppo davvero poco.
Trascurabili i loro dischi successivi, banali esercizi di una band che aveva già detto tutto nel magico ed irripetibile debutto.
Come diceva spesso il loro chitarrista, vero punto di forza della band ma purtroppo, in quel periodo, ossessionato da una forte dipendenza dall’eroina, Christian Leibfried: “Fuck yeah, this is gonna rock!!”



PUSHERMAN - Floored
(CD Ignition)


Nel panorama inglese dell’epoca non esisteva niente del genere perchè erano tutti concentrati sul brit-pop et similia, sulla scia delle due bands che tenevano letteralmente occupati tutti: Blur ed Oasis ovvero le galline dalle uova d’oro!
La fortuna, se così si può dire, per i Pusherman è stata quella di essere presi sotto l’ala “protettrice” di una major come la Sony Rec. (grazie all’interessamento dell’allora manager degli Oasis, Marcus Russell della Ignition Rec.) e di aver avuto la possibilità, durata com’era logico aspettarsi, il tempo di un album, di registrare questo Floored.
L’estasi inizia con Chase It  torrenziale brano come sospeso tra degli Oasis molto più heavy e slowly ed i Verve di inizio carriera.
Sold è un solidissimo e drogato R’n’B moderno con un muro di chitarre e la voce di Andy Frank che ricorda nuovamente quella di Liam Gallagher anche se completamente sfocata.
So Long Low più notturna e psychedelica in senso Spiritualized attenua il clima di torrida elettricità ma solo per poco perché con First Time si ritorna ad un deciso e moderno blues-rock con tanto di slide, voce filtrata e drogata e coriandoli elettrici di chitarra.
Whole ci ammutolisce con un ipnotico e tribale groove di chitarra, un po’ come se gli Stooges volessero cimentarsi con il caldissimo funk dei primi anni settanta, e la voce sgraziata ci riportasse nel nostro tempo con nove claustrofobici minuti di estenuante feedback elettrico.
Never Coming Down epica e memorabile con una melodia tra lo spaghetti-western di Ennio Morricone e il Neil Young più dilatato e psychedelico sommersi in un oceano di rumore bianco.
Non c’è una traccia da saltare sino al fatale punto di non ritorno della suite finale Floored (uncidi incredibili minuti), decadente e moderno mantra psychedelico tra progressioni kraute, drogate dilatazioni dub e deliri di chitarra tra cascate di fuzz e feedback e la voce lontana e persa di Andy Frank ormai irrecuperabile.
Andy Frank si è poi trasferito ad L.A. ed è inevitabilmente morto a causa di un’overdose di eroina nel 2008, all’età di 42 anni…



ACID BATH - Paegan Terrorism Tactics
(LP/CD Rotten Records)


La provenienza è molto importante in questo specifico caso: lo stato è la Louisiana!
Solo dalle malsane paludi di quello stato possono esalare suoni così malati e per certi versi lugubri: dagli esperimenti voodoo-blues-psychedelici di Dr.John (quello di Gris Gris, 1968) alle estreme derive sludge-core deli Eye Hate God scorre lo stesso sangue…
Dax Riggs, il frontman e vocalist di questa degenerata congrega di devastatori del r’n’r, è sfigato per natura nonostante l’indiscutibile talento dimostrato negli anni.
Dotato di una voce profonda e nasale, che può ricordare quella di Jim Morrison, soprattutto nelle decadenti ballate gotiche di New Death Sensation  e la lunga ed innodica Death Girl (quello che Dax considera il suo pezzo country?!), è in grado di spaziare fra registri dei più vari sino a lambire territori stoner / doom della specie più pregiata come nelle immonde Bleed Me An Ocean e Locust Spawning.
L’elettricità delle chitarre è devastante ed ipnotica e si plasma con le ritmiche solide e tribali della batteria creando una spirale inarrivabile di moderna brutalità (Diab Soule massimo esempio di incontenibile furia tra Black Sabbath, Doors e pura follia!).
Esaltanti le progressioni della furiosa Paegan Love Song con le chitarre super stoner ed i cadenzati ritmi mosh con la voce melodica/isterica di Dax assolutamente irresistibile come anche la crepuscolare ballata Graveflower che alterna momenti bucolici a ciclopici riffs proto-doom di astrale potenza.
Poche bands sono state così complete eccellendo nella continua ed originale alternanza di fasi melodiche a potentissimi gorghi elettrici di super-sludge mammoth riffs che duellano con la voce del posseduto Dax sull’orlo del baratro!
Questo disco è assolutamente incredibile ed è nettamente più riuscito se paragonato al primo album degli Acid Bath When The Kite String Pops (1994) o all’unico album della successiva band di Dax, ovvero l’omonimo Agents Of Oblivion (2000) niente più che discreti esempi di stoner-rock che si disperdono tra le altre uscite.
Altra cosa i successivi Deadboy & The Elephantmen, molto più blues e tradizionali ma assolutamente degni di nota con il loro unico ed ancora freschissimo We Are The Night Sky (su Fat Possum Rec., 2005) ovviamente snobbato da tutti.
Speriamo che in futuro il nostro caro Dax Riggs ci riesca a sorprendere nuovamente con qualcosa di eccitante: stay tuned!



STARLITE DESPERATION - Go Kill Mice
(LP/CD Sweet Nothing)


A parte l’avere scelto uno dei nomi più belli di sempre questa band californiana era in se’ una riuscita miscela di grandi influenze che, in maniera aperta e forse non troppo ricercata, andavano dai Gun Club, ai primi X (di John Doe ed Exene Cervenka) e dai Birthday Party (di Nick Cave) sino ai classici mostri sacri degli anni d’oro (tra rock, tradizione e psychedelia).
Quando hanno registrato il disco in questione risiedevano a Detroit (sono poi ritornati a Los Angeles nel 2002) e sono riusciti nel difficile compito di realizzare nove brani scarni e  dirompenti, come la conclusiva a perdifiato Go Kill Mice, che si fanno sempre ricordare per diversi motivi: il suono è essenziale ma pieno e deragliante (sentite in tal senso lo splendido giro di basso della frenetica ed anthemica Notes From The Drag come i cori della cadenzata danza tribale di Do You Wanna Be There).
Il cantante Dante Adrian White ha una voce nitida e calda che si innesta alla perfezione con la scarna ossatura di un rock dalle forti reminiscenze west-coast di metà anni settanta (quando il punk stava nascendo in tutta la sua incontaminata furia iconoclasta).
Una band fuori dal tempo e da qualsiasi trend che dopo questo esordio ha realizzato altri due trascurabili dischi (Don’t Do Time, 2006 e Take It Personally, 2008), colpi di coda finali prima dell’inevitabile dissolvimento.



FLAKES - Back To School
(LP/CD Dollar Records)


Il manifesto del desiderio di rimanere per l’eternità adolescenti o l’incapacità di diventare adulti vedete un po’ voi.
L’essenza del R’n’R, quindi del Punk…
Se vi è capitato di incontrare Russell Quan (ha suonato con Mummies, Phantom Surfers, Bobbyteens…) allora avete già capito di chi sto’ parlando: di giorno svolge la sua attività di meccanico in un officina di San Francisco e di sera si trasforma in un instancabile agitatore culturale sempre in prima fila ai migliori concerti di tutti i clubs della città (Purple Onion in primis).
La miscela di questo incredibile disco è fatta di entusiasmo, passione, competenza ed adrenalina al 100%!!
Ricordo un loro concerto pazzesco a Benidorm (Spagna) durante uno dei mitici Wild Weekend organizzati da Josh e Babs Collins che si svolgeva in un claustrofobico scantinato, a metà pomeriggio (?!?), con una temperatura, ben oltre una normale sauna, prossima al puro dissolvimento e Russell Quan alla batteria dei suoi Flakes non si è fermato un solo istante collegando i vari brani in un continuo flusso di vibrazioni positive indotte: la chimica del R’n’R!
La competenza ha portato Russell ed i suoi accoliti a scegliere brani da coverizzare come Open Up Your Door (pezzo fantastico di Richard & The Young Lions del 1966) o lo stravagante medley di Shake / Hold On (rispettivamente di Shadows Of Knight / Sam & Dave) senza soluzione di continuità in un cocktail personalissimo ed esplosivo.
Insomma tutto funziona a meraviglia nei quattordici brani di Back To School, tra i migliori Real Kids, i Flamin’ Groovies, gli indimenticabili DMZ e, perchè no, gli onnipresenti Ramones…



BAD LIQUOR POND - Blue Smoke Orange Sky
(LP MT6 Records)


Sono venuto a conoscenza di questa band di Baltimora nel Maryland per puro caso durante una delle mie rare incursioni nel mondo di bandcamp.
Che sorpresa è stata il primo ascolto del loro primo disco Year Of The Clam (2007):
atmosfere dilatate, suoni grezzi ma delicati magicamente cullati in un magma “indie-pop” con frequenti passaggi in territori orientali (utilizzo di strumenti come bouzuki, sitar, tar…).
Ovviamente il passo successivo è stato quello di passare all’ascolto del secondo disco Radiant Transmission (2008) splendido e più asciutto del precedente.
Il terzo ed ultimo disco Blue Smoke Orange Sky (2012) è, se possibile, ancora meglio dei due precedenti (la scelta tra i tre dischi è stata ardua).
Quello che colpisce maggiormente dei Bad Liquor Pond è la capacità di scrivere belle canzoni, semplicemente.
La maggior parte di bands attuali, almeno in questo genere, si preoccupa di avere dei suoni e delle atmosfere molto cool per mascherare l’incapacità di scrivere brani da ricordare.
Ogni brano del disco in questione invece è dotato di una struttura molto solida, nonostante la semplicità, ed è sempre pervaso da melodie dal forte sapore tardo sixties (spesso molto stonate) catapultate magistralmente in un contesto moderno (leggi andatura ipnotica accostabile a cose definite shoegaze con influenze kraute e tipico motorik ritmico costante ma non freddamente metronomico) con suoni sempre molto vintage ma mai troppo puliti.
Come dire, senza essere particolarmente originali, suonano diversi da tutto ciò che ci circonda con una capacità di tenere l’attenzione vigile in qualsiasi momento.
Al centro di tutto c’è sempre la canzone, anche se più lunga della classica canzone “indie-pop” comunemente intesa, con ritornelli dalla forte presa e memorizzazione.
Potrei azzardare dei nomi indicando gli Spacemen Three per le atmosfere ed i ritmi sempre placidi e fortemente oppiacei con però un piglio pop più melodico e voce calda e modulata e chitarra elettroacustica con cadenze in linea con certo garage-psychedelico dei medi sessanta (Chocolate Watchband in primis) ed i suoni molto riverberati e sfasati.
Purtroppo si sono sciolti nel 2014 quindi, prima di salutarli per sempre, mi sembrava giusto cercare di far conoscere il loro non comune talento.


Fabio Reverberend Avaro

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